Manolo: come ho toccato il cielo

Scalare una montagna a mani nude è un atto di fede. E richiede una concentrazione e una conoscenza di sé degni di un asceta. Per questo il freeclimber Maurizio Zanolla, conosciuto da tutti come Manolo («Uno di quei soprannomi che ti si appiccicano addosso da bambino, e non sai neanche più perché, ma te li porti dietro tutta la vita») parteciperà come ospite all'undicesima edizione di Torino Spiritualità, dal 23 al 27 settembre a Torino

Probabilmente Manolo (al secolo Maurizio Zanolla), non apprezzerà che una sua intervista inizi col ricordo di quel famosissimo spot che girò negli anni Novanta, quello che ricordava che uno come lui era “No Limits”. Ce lo immaginiamo lui, leggenda vivente del freeclimbing, inventore in Italia dell'arrampicata libera, scalatore delle montagne di tutto il mondo, soprannominato per questo “Il Mago”, a pensare con fastidio che, con tutte le imprese pazzesche che ha affrontato, a renderlo noto al grande pubblico è stato un orologio. Però - e le chiediamo scusa, Manolo - è da lì che vogliamo partire. Perché anche i meno sportivi non potevano non smettere di fare quello che stavano facendo per guardare in tivù quelle immagini di un ragazzone capelluto che scalava a mani nude vertiginose pareti di roccia in paesaggi mozzafiato. Tutti, in quel momento, avremmo voluto avere il fegato di essere Manolo, provare quella libertà, quell'ebrezza, quell'adrenalina che probabilmente lui provava scalando quelle montagne.

Giusto, Manolo, parliamo di questo: cosa si prova esattamente lassù, in situazioni così estreme?
«Non è detto che proviamo tutti la stessa cosa, e non è del tutto corretto dire che ogni volta che scaliamo sia sempre una situazione estrema. Vivere delle emozioni non è sempre necessariamente connesso a una situazione di pericolosità. Forse l'immaginario collettivo comunica una percezione non proprio reale di quello che la montagna trasmette. Certo, ci sono momenti adrenalinici, ma c'è anche l'armonia di un ambiente che ti permette di guardarlo, di percepirlo.»

Però, immaginiamo che l'adrenalina ci sia, anche quando si fa tutto in sicurezza. Ecco, questo come si concilia con l'aspetto più introspettivo e riflessivo di uno sport che si pratica in solitaria su una montagna?
«Intanto c'è un avvicinamento a questo tipo di attività che dal mio punto di vista dovrebbe essere un po' graduale e anche intelligente. All'inizio tutto quello che non conosciamo ci fa paura, anche nel quotidiano, ma quando ci si abitua a quella condizione diventa una cosa familiare. Il vuoto di una grande parete può provocare terrore, ma poi si entra in una dimensione diversa che lo trasforma quasi in un punto d'aiuto, di appoggio.» Quando guardi le sue imprese, che siano in video o in fotografia, davvero non capisci: come è possibile vincere così la forza di gravità? Le sue mani, mentre scala, si aggrappano ad appigli quasi invisibili, e non si può non pensare che abbia qualche superpotere acquisito con il morso di un ragno radioattivo. Altrimenti, non te lo spieghi, come faccia a tenersi appeso a mani nude su pareti verticali che agli occhi di un comune mortale sembrano lisce come l'olio. E poi, vogliamo parlare della forza nelle braccia che tirano su un intero corpo sospeso nel vuoto, facendo leva su un minuscolo appiglio nella roccia? O vogliamo parlare di quanto ci tenga col fiato sospeso vedere qualcuno lì, sull'orlo del precipizio, affidare totalmente la propria vita ad un mix di forza e concentrazione? Manolo, quando parla delle sue imprese più spericolate, dà l'impressione di essersi reso conto di aver in qualche modo sfidato la sorte, in una pericolosissima roulette russa che forse oggi non ripeterebbe. Da genitore, d'altronde, la prospettiva su quel che abbiamo fatto da giovani cambia incredibilmente, e spesso non ci si può che augurare che i propri figli abbiano un po' più di sale in zucca.

Lei si è autodefinito un “sopravvissuto”. Crede in una forza superiore che possa averla in qualche modo aiutata?
«In realtà non molto. Quando sei adolescente hai l'incoscienza, il coraggio di coloro che si sentono immortali. Poi, crescendo, ti guardi indietro e rivaluti la pericolosità di quello che hai fatto. È un argomento molto difficile: c'è sicuramente qualcosa di trascendentale che si vede in quei luoghi, difficilmente un alpinista può non chiedersi l'origine di quella perfezione per noi irraggiungibile che si percepisce là intorno. La montagna ci fa pensare per la sua sublime bellezza, ma anche per gli aspetti drammatici che trasmette, come la fragilità, la consapevolezza che tutto può scomparire in un attimo. Ecco, c'è sicuramente qualcosa di molto forte, una grande energia di cui ho molto rispetto: sarei un arrogante se pensassi di essere riuscito a fare quello che ho fatto e a uscire da certe situazioni solo grazie alla mia bravura e alla mia preparazione; sono stato fortunato.»

Per praticare uno sport del genere, conta di più l'allenamento fisicoo la concentrazione mentale?
«Bisogna distinguere tra la semplice attività sportiva, che si pratica in sicurezza nelle palestre, e l'esplorazione, l'avventura vera che si vive tra le montagne. Ecco, quando ci allontaniamo dalla sicurezza delle quattro mura e andiamo all'aperto è sì molto importante la preparazione atletica, ma forse la parte mentale è preponderante. La capacità di avere una concentrazione costante richiede un grande allenamento psicologico che forse ci allontana un po' dalla semplice attività sportiva.»

Cosa può insegnare l'arrampicata?
«Il rispetto per l'ambiente, per se stessi e per gli altri, innanzitutto. È una delle prime cose che la montagna mi ha insegnato. L'arrampicata sa essere una grande scuola, una forma di educazione che ti permette di adottare un modo critico di pensare. Ti dà la capacità di assumerti le tue responsabilità, di non delegare.»

C'è nella sua vita un limite che non è riuscito a superare?
«Ce ne sarebbero stati parecchi, ma la montagna mi ha insegnato anche a perdere. In generale ho imparato che i limiti non vanno superati con un enorme salto ma grattando quotidianamente e spostando leggermente più in là le proprie possibilità, provando pian piano a raggiungere l'obiettivo.»

Come si diventa un grande arrampicatore, un bravo alpinista, un campione?
«Il talento da solo non è sufficiente. Bisogna avere la voglia di raggiungere i risultati, ma questo lo si può dire di qualsiasi sport o di qualsiasi attività in generale. Possiamo anche nascere con un talento, per il quale però non abbiamo alcun merito: il nostro dovere è coltivarlo. Con il talento non andiamo da nessuna parte, se non ci mettiamo la passione, la forza, l'impegno.»

Una delle sue imprese è protagonista di un pluripremiato docufilm, “Verticalmente Demodè”. Parliamo della scalata di quella via che lei ha battezzato “Eternit”. Perché questo nome?
«Quell'inclinazione è molto pericolosa da decifrare, può nascondere una difficoltà strana, velenosa. Ed è esattamente quello che era l'Eternit: qualcosa che non sembrava ma era pericoloso. Volevo ricordare la drammaticità di quella vicenda: il fatto che a volte non vogliamo vedere la pericolosità delle cose. Mi sembrava una cosa che era giusto ricordare.»

Lei non ama le gare di arrampicata, perché?
«Non ho nulla contro le gare, maa me non piacciono, non mi dà soddisfazione vincere una competizione. Anzi, quando si entra in quelle dinamiche, il mio personale modo di fare arrampicata viene snaturato. Per me è una cosa molto intima e personale, che non riesco quasi a raccontare, figurarsi a vivere sotto i riflettori di una gara. Al massimo posso considerarla una competizione con me stesso. In fondo, la mia è forse più una forma di creatività che di attività agonistica.»

di Valentina Dirindin

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