by Davide Fantino
Tra gli sportivi non calciatori che hanno fatto breccia nell’interesse degli italiani c’è sicuramente lui: Ivan Zaytsev, nato a Spoleto una trentina di anni fa dal campione olimpico di volley Vjačeslav Zajcev e dalla nuotatrice Irina Pozdnjakova, entrambi russi. Un’eredità non facile, soprattutto quella del padre, leggenda della disciplina e con le idee molto chiare sul futuro del figlio, anche per quanto riguarda il ruolo che avrebbe dovuto ricoprire, palleggiatore come lui. Ivan, che mal sopportava e digeriva questa scelta, ha lottato per trovare la sua dimensione, anche se è costata fatica e scontri, dolori e rinascite, come ben espresso in queste righe estratte dall’autobiografia "Mia", scritta con l’aiuto del giornalista sportivo Marco Pastonesi. “Solo contro tutti. Ma io ho la palla: è pesante, è incandescente, è decisiva, è vinci o perdi, è muori o sopravvivi, è muori e risorgi, è una pistola e un proiettile, è un cannone e una bomba, è un missile, un’atomica o un cavallo di Troia, è una lavatrice o un Frecciarossa, è un esame di coscienza o un esame di Stato, è un pezzo di storia e un pezzo di vita, è un pezzo di me. È mia”. Con questa determinazione e consapevolezza del proprio ruolo Zaytsev ha guidato la nazionale italiana al Mondiale giocato in casa.
Ivan Zaytsev, lei ha raccontato la magia che si era venuta a creare a Rio de Janeiro quando arrivò una splendida medaglia d’argento alle Olimpiadi 2016. Quanto conta l’atmosfera con cui si vive un grande evento come il Mondiale?
"Bisogna avere la giusta tensione: dopo un lungo periodo dedicato alla preparazione abbiamo svolto una mole di lavoro enorme, difficile lavorare più di quanto si fa in queste situazioni. Solamente le partite ufficiali danno il polso della effettiva condizione e possibilità di fare bene."
Lo zar (il suo storico soprannome) diventa capitano della nazionale. Che cosa significa indossare la fascia?
"Aggiunge responsabilità e orgoglio. In otto anni di nazionale sono cresciuto dal punto di vista tecnico e umano. Da capitano cerco di passare la mia esperienza ai compagni e poi sono uno che dice sempre come stanno le cose, questo aspetto del mio carattere non è mai cambiato…"
Da anni lei è ai vertici del volley internazionale. Come è cambiato il suo modo di approcciare i grandi eventi e le partite decisive?
"Ho imparato a leggere i segnali che mi manda il mio corpo e a reagire meglio agli imprevisti. Da giovane reagivo più d’impulso, disperdendo energie."
L’anno scorso è uscita la sua autobiografia “Mia”. Che cosa l’ha spinta a scriverla e che cosa c’è in quelle pagine?
"Ho deciso di raccontarmi nel modo più onesto possibile, non sono capace di fingere: spero di avvicinare i lettori alla mia storia e alla pallavolo. Nel libro ci sono l’uomo Ivan, una vita personale, le mie grandi motivazioni, i dubbi, le scelte fatte e tante altre cose."
Che tipo di reazioni ha riscontrato nelle persone?
"Il libro è andato bene, a tante persone è piaciuto. Ho ricevuto anche alcune critiche ma le accetto come sempre, ci stanno."
In nazionale come nel club ha come numero di maglia il numero 9. Che cosa rappresenta?
"È quello della mia rinascita, quando ho deciso che non avrei più giocato da palleggiatore (come il padre grande giocatore della Russia degli anni Ottanta, ndr). Ho cambiato ruolo e anche numero di maglia, sono andato alla ricerca di un nuovo equilibrio e delle motivazioni giuste per migliorarmi. Sono felice di esserci riuscito."
Non avesse sfondato con la pallavolo, aveva pronto un piano B nel mondo dello sport?
"Come racconto anche nel sottotitolo della mia autobiografia ("Come sono diventato lo zar fra pallavolo e beach volley, amore e guerre") amo il beach volley da sempre e lo spirito festaiolo che lo caratterizza, è una disciplina più legata alla libertà. Se devo cominciare a pensare a che cosa farò da grande, sento che non mi è mai passata di mente l’idea di giocarci: nello sport voglio lottare sempre per la vittoria e se dovessi accorgermi che nella pallavolo non trovo più le situazioni per poter rimanere al vertice comincerei a chiedermi in quale altra direzione andare."
Chi l’ha seguita della sua famiglia in questa avventura mondiale?
"Ci sono mia moglie con i figli, compatibilmente con la loro giovane età, e mia mamma. Mio padre, invece, non ce l’ha fatta a raggiungermi."
La final six del torneo si è giocata a Torino, dove da qualche mese vive e gioca un campione che lei ammira molto, Cristiano Ronaldo.
"Oltre alle sue incredibili qualità tecniche, mi stupisce di CR7 la devastante mentalità vincente, l’attenzione nel lavorare sui dettagli per arrivare a fare la differenza. Solamente i grandi campioni sono capaci di dare benzina al corpo e anche alla mente, forse lui è il più forte giocatore del mondo. Mi piacerebbe conoscere il suo quotidiano e incontrarlo per chiedergli come fa ad avere ancora questa costanza impressionante dopo tanti anni ai vertici."
In un documentario realizzato con Red Bull, racconta la sua storia attraverso i suoi diversi tatuaggi, ognuno con una storia dietro. Che cosa rappresentano?
"Sono emozioni forti della mia vita, degne di essere impresse sulla pelle. Come racconto nel documentario, tatuarsi è decorare ma anche dichiarare, è cultura, estetica, filosofia, narrazione e comunicazione. Immediata e profonda al tempo stesso, soprattutto adesso, che tutto può essere cancellato e dimenticato in una frazione di secondo. Per decidere di lavorare in questo modo sul proprio corpo bisogna avere un rapporto particolare con il tatuatore: io ho creato un dialogo speciale con Francesco Cinti Peredda, a lui mi affido per imprimere per sempre il ricordo di istanti speciali."
Quale sarà il prossimo tatuaggio?
"Non posso saperlo adesso. Dipende da quali emozioni vivrò in futuro."