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Cattiva: il lato oscuro della maternità

By Valentina Dirindin

Qualunque donna ha sentito parlare, almeno una volta nella vita, delle gioie della maternità.
Ecco. Sappiate che una donna incinta, o una donna che anche solo progetta di avere un bambino, ha sentito almeno un milione di volte quei discorsi. Ovunque. In famiglia, certo, ma anche al supermercato o sul tram, spesso da parte di perfetti sconosciuti. Quanto sia bello e unico essere mamma, quanto sia immenso l’amore per un figlio, quanto la maternità sia un’esperienza straordinaria e totalizzante.
Totalizzante, appunto. Siamo proprio sicuri che – riguardo a quest’ultimo aggettivo – ci venga detta la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità?

La risposta probabilmente è no. Non vogliamo essere noi a sfatare un mito, infrangendo uno degli ultimi tabù della modernità occidentale: a sfatarlo per noi (e molto meglio di noi, con una scrittura graffiante, sicura, maestra) ci ha pensato Rossella Milone, scrittrice napoletana che ha da pochi mesi pubblicato "Cattiva", edito da Einaudi. Un romanzo potente, crudo, a suo modo cattivo, così come è il suo titolo. Un romanzo che potremmo definire verista, se il verismo è quella corrente letteraria che racconta la realtà senza filtri, senza giudizi morali, in maniera impersonale. Pane al pane, verrebbe da dire.

Quello che racconta Rossella Milone è forse il momento più difficile della vita di un genitore, di una madre: i primi mesi dopo il parto, quando si inizia la convivenza con qualcuno che – in fondo – non si conosce, con qualcuno che piange e che richiede il 100% della tua attenzione. Un momento di profonda solitudine, nonostante la rete che ci si costruisce intorno, e nonostante la presenza costante di un nuovo esserino proprio lì accanto alla mamma.

Milone lo racconta in maniera quasi spietata, senza mai lasciarsi andare a giudizi emotivi, né tentare di addolcire la pillola. Un realismo che confonde, in un universo letterario forse disabituato a questo genere di romanzo.

Questo libro nasce da un’esperienza autobiografica?
«No. Per me fare narrativa significa raccontare storie. Certo, se non fossi diventata madre forse non avrei saputo raccontare questa storia, ma io sono una madre diversa da Emilia, e la sua non è la mia esperienza. Un romanzo nasce da un’esigenza personale, ma il dato inventivo è fondamentale: il romanzo a un certo punto prende la sua strada in autonomia. Quella legata a questa storia era di certo un’esigenza emotiva che ho provato da madre. In fondo, bisogna raccontare ciò che si conosce a livello emozionale.»

Come si riesce a parare di maternità con questa crudezza? Non ha provato dei sensi di colpa, in quanto mamma, a raccontare il lato oscuro della maternità?
«Il senso di colpa è quello che la genitorialità ti fa vivere quotidianamente. Non a caso il titolo del romanzo “Cattiva” è proprio il giudizio che la madre dà su se stessa. Credo che il senso di colpa sia un sentimento fisiologico della genitorialità. Detto ciò, la scrittura deve essere onesta, e lo scrittore deve andare a fondo, senza essere indulgente ed eliminando i filtri di difesa.»

Qual è stato l’effetto sull’opinione pubblica, sui lettori?
«Avevo molta paura del giudizio esterno, invece fino a ora mi hanno scritto tantissime madri, ringraziandomi per aver nominato cose che a cui loro non erano mai riuscite a dare un nome. Di questo sono molto felice, perché mi sembra esattamente quello che deve fare la letteratura. E sono felice anche dei complimenti che ricevo dai non genitori, che mi dicono di essere riusciti con il mio romanzo a entrare in contatto con una realtà che non conoscevano.»

Il tema di Torino Spiritualità, dove lei ha presentato il suo romanzo, è “preferisco di no”: nella società di oggi si può preferire di non avere figli?
«No, non è una cosa su cui si è liberi di decidere serenamente. In generale quello della genitorialità e della maternità è un tabù intriso di un fortissimo giudizio culturale su come debbano andare le cose. Questo giudizio è ancora più forte, direi asfissiante, su chi sceglie di non avere figli, una decisione che viene considerata biologicamente innaturale e culturalmente inaccettabile. »

Crede che una donna, pur scegliendo la maternità, abbia la possibilità di viverla in modo diverso, a modo suo?
«Di nuovo, no. I giudizi e i preconcetti su come si debba essere genitori sono fortissimi. Basti pensare al mancato riconoscimento di un congedo di paternità, che evidenzia come da un punto di vista legislativo sia ancora la madre a doversi fare carico dei figli. Pian piano ci si può liberare dai giudizi esterni e costruire un proprio percorso, anche sbagliando, pur rimanendo sempre all’interno delle regole di educazione sanitaria e civile.»

Sempre riguardo al tema del “no”, esistono a suo parere dei “no” che alleggeriscono il peso della maternità?
«Ci sono dei no che dovrebbero essere strutturati, tanto che non ci dovrebbe neanche essere bisogno di dirli: NO, non rinuncio al mio lavoro perché sono una mamma. NO, non rinuncio a farmi la tinta. E via dicendo…»

Lei fa laboratori, corsi di scrittura, perfino una scuola di lettura per ragazzi. La letteratura per lei è una missione?
«Non è che sia una missione, ma è di certo una parte fondamentale del mio modo di vivere. Non riuscirei a pensare la mia vita senza letteratura: quello che vivo intorno a me la maggior parte delle volte lo vedo già in termini di narrazione.»

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