Marco D’Amore, a Torino per girare il suo secondo film da produttore, ci ha raccontato come è la sua vita fuori da Gomorra. Una vita tra teatro, storie di impegno civile e anche un po’ di noia. Nulla a che vedere con Ciro di Marzio
Tenteremo di non spoilerare, parlando di Marco d’Amore e del suo personaggio in Gomorra, Ciro di Marzio. Perché se c’è una cosa che gli appassionati di serie televisive odiano (anche quelli che sono rimasti un po’ indietro con le puntate), è che gli si rovini il finale. E guai a far arrabbiare gli spettatori di Gomorra, visto che parliamo di diversi milioni di Italiani. Quasi un milione di spettatori medi per la terza stagione della serie prodotta da Sky, contenuto televisivo tra i più commentati sui social. Parte di questo grande (enorme) successo, Gomorra lo deve di certo alla incontestabile qualità del suo cast. Su tutti, Marco d’Amore, che ha saputo dare un’anima a un camorrista senz’anima, rendendo possibile uno dei meccanismi più complicati e d’effetto della narrazione: farti affezionare a un cattivo. Improvvisamente diventato un idolo del piccolo schermo, Marco d’Amore ha saputo, grazie alla sua bravura, non farsi fagocitare dal personaggio di Ciro di Marzio, riuscendo dove altri più grandi di lui non sono riusciti (pensate a un Mark Hamill perennemente incastrato nel personaggio di Luke Skywalker). Oggi, Marco d’Amore recita a teatro, al cinema (in Brutti e cattivi, di Cosimo Gomez, ma anche in Un posto sicuro, che è stato proiettato allo scorso gLocal Film Festival) e fa carriera come produttore, con la sua “Piccola Società”, una casa di produzione cinematografica e teatrale fondata insieme al regista torinese Francesco Ghiaccio. Marco e Francesco, dal palco del gLocal Film Festival, hanno raccontato il rapporto tra regista e attore, svelando anche qualche retroscena sul secondo lungometraggio a cui stanno lavorando, che vedrà Torino teatro delle riprese.
Marco, ci racconta la sua esperienza da produttore con “La Piccola società”?
«Questa esperienza nasce da un desiderio molto lontano mio e di Francesco, un desiderio di indipendenza, di autonomia, anche rispetto alla capacità di gestire l’economia di un progetto. Attualmente ci avvaliamo dell’aiuto di realtà più grandi, come Indiana Productions, ma il sogno è di trasformarci un giorno da produttori freelance a produttori indipendenti a tutti gli effetti».
Il primo film scritto, prodotto e realizzato insieme a Francesco Ghiaccio è stato “Un Posto Sicuro”, film che racconta la vicenda dell’Eternit di Casale Monferrato…
«Un film che nasce soprattutto dalle istanze che le persone che abbiamo incontrato (ex operai, familiari di vittime) ci hanno gridato in faccia, chiedendoci di non fermare questa lotta e di continuare ad affermare un principio di giustizia, nella speranza che ciò che è accaduto a Casale non accada più. Ci siamo trovati davanti a una storia incredibile in termine di vittime e di tempi, e avevamo paura che raccontare tutte le storie non riuscisse a rendere lo spessore della gravità della situazione. Quindi abbiamo scelto una vicenda che si facesse metafora di tutto quello che è accaduto, quella di un padre e un figlio che si ritrovano dopo tempo, quando il primo scopre di avere un mesotelioma».
Un espediente tipico del cinema, quello di trovare uno storytelling che permetta di raccontare sullo sfondo tragici fatti di attualità…
«Certo, anche se dipende dai generi. Se vuoi dare voce a centinaia di voci, leggere le carte processuali, fai un documentario, però cambia il punto di vista: attraverso la storia particolare puoi arrivare al cuore delle persone, che è la prima cosa che va smossa. Dal mio punto di vista, un’opera (letteraria, teatrale, cinematografica) non deve essere educativa, ma deve suggerire. Sono convinto che gli spettatori abbiano gli strumenti per completare il significato di quello che stai raccontando».
Che tipo di prodotti le piacerebbe offrire all’industria cinematografica italiana con la sua casa di produzione?
«Su questo io e Francesco abbiamo un’idea abbastanza precisa: a noi piace un tipo di racconto che parta dalla realtà ma si conceda delle derive oniriche, nella misura in cui riteniamo che il cinema sia soprattutto un grande spazio di sogni che viceversa nella vita spesso sono negati».
Visto che la masterclass che ha tenuto al gLocal Fil Festival verteva su questo, quale pensa debba essere il rapporto fra regista e attore?
«Varia molto dalla natura delle persone, ma è importante che condividano l’obiettivo comune del progetto, sia questo un film o uno spettacolo teatrale. In questo lavoro si condividono pezzi di vita, spesso l’interpretazione richiede una partecipazione emotiva altissima e se si riesce a creare un’intimità il risultato è indubbiamente migliore».
Teatro, cinema, televisione: nella sua carriera ha fatto un po’ di tutto. C’è un palco che la emoziona di più, o sul quale vuole investire di più nel futuro?
«Un tempo ero un giovane aspirante attore snob, che pensava che il teatro fosse l’unico luogo in cui si preservano certi valori artistici. Invece mi sbagliavo. Ho avuto esperienze televisive e cinematografiche bellissime, di grande livello. È lì che ho compreso che la qualità la fanno le persone, la capacità che hanno di rischiare e mettersi in gioco e la generosità con cui affrontano il lavoro».
Immagino che non ne potrà più di parlarne, ma devo chiederglielo: come è la vita dopo Gomorra?
«Assolutamente, come si può pensare che non ne voglia parlare? È come parlare del più grande amore della vita! Io sono totalmente devoto a questo progetto, che continuerò a promuovere con grande gioia. Credo sia un lavoro altissimo, che ha sdoganato soprattutto all’estero la capacità internazionale che ha il nostro audiovisivo».
E come si sopravvive, professionalmente, a un progetto di tale grandezza?
«Ho la presunzione di dire che ho sempre fatto scelte molto drastiche, e i cambiamenti non mi hanno mai spaventato, anzi, hanno sempre alimentato il mio desiderio di mettermi in gioco. Quindi, è finito un progetto che mi ha dato tanto, anche tanta credibilità nei confronti di nuovi interlocutori. Ora sono molto curioso e fiducioso di quello che verrà.»
Prima di Gomorra aveva mai pensato che sarebbe diventato un sex symbol?
«Ma no dai, questa cosa fa sorridere! Io penso che quella fascinazione sia legata al personaggio, che come tutti i cattivi della storia suscitano questo tipo di appeal. Insomma, è a attribuire a Ciro di Marzio, non a Marco d’Amore».
E in generale, si sarebbe mai aspettato un successo simile?
«No, davvero. Anche all’indomani dell’uscita della prima stagione, nessuno di noi aveva capito la portata di quello che stavamo facendo. Eravamo sicuri che avremmo avuto più detrattori che fan».
E fuori da Gomorra, Marco d’Amore chi è?
«Per me è sempre divertente riscontrare quanto venga identificato con il personaggio che interpreto in Gomorra. Tutti immaginano di imbattersi in Ciro, invece io sono totalmente diverso, anche caratterialmente. Sono timido, riservato, tendo a ritrarmi. Sono un secchione: amo leggere, studiare, andare per musei. Insomma, sono un tipo anche un po’ noioso».
di Valentina Dirindin