Una vita tra Genova e Torino, Federico Sirianni è il personaggio perfetto per farsi raccontare pregi e difetti delle due città. Che hanno collaborato nella sua carriera di cantautore: l'una ispirandolo, l'altra dandogli la possibilità di fare della musica una professione
Barba incolta, sguardo severo ma mitigato dal sorriso bonario, una voce piena e matura. Se non basta questo a fare di Federico Sirianni l'immagine perfetta del cantautore, ci pensano le sue canzoni, scritte in oltre vent'anni di esperienza sul palco, chitarra al collo e qualche sorso di vino a fine concerto. Canzoni che gli hanno regalato un pubblico fedele (“affezionato”, come si dice in gergo) e moltissimi premi prestigiosi. Eppure, forse il suo nome non vi è così familiare. Non è un caso, perché i cantautori veri, alla fine, non sono sempre per un pubblico mainstream. Non scrivono tormentoni che vanno in radio, i cantautori alla Sirianni, ma suonano nei teatri e fanno tour in cui si rilegge John Fante. Non firmano autografi per le strade, ma ricevono lettere d'ammirazione dai fan di tutta Italia che, fedelissimi, scrivono solo a loro. Insomma, sono personaggi d'altri tempi, i cantautori e il loro pubblico, ed è questo che li aiuta a regalare alla loro musica sempre un'aura di romanticismo, un'atmosfera suggestiva, un filo conduttore che trasforma le canzoni in racconti. E racconti sono anche le canzoni contenute nell'ultimo lavoro di Sirianni, l'album “Il Santo”, il suo quarto disco “ufficiale” all'attivo, dopo "Onde clandestine", "Dal basso dei cieli" e "Nella prossima vita", realizzato con gli GnuQuartet e definito da una certa critica "il disco italiano più bello del 2013". Un disco anticipato dal bellissimo singolo che dà il titolo all'album (ne trovate un'anticipazione su Youtube) e che lo porterà di sicuro su tantissimi palchi – anche se Sirianni, come i cantautori di quel tipo lì, è più o meno sempre in tour: zaino su una spalla, chitarra sull'altra, il loro lavoro è quello di portare la musica in viaggio. Un disco pieno di tantissime collaborazioni, non solo di musicisti, ma di tanti amici (ci sarà anche Arturo Brachetti, inedito in veste di cantante, in una canzone in cui ci possiamo rivedere un po' tutti, dal titolo “mia madre sta su Facebook”), che Federico ha incrociato nella sua strada tra Genova e Torino. A Genova, Federico c'è nato e cresciuto, alcuni anni fa. Una città che lo ha formato, gli ha insegnato a scrivere, a suonare e a cantare la sua musica, quella musica di cui parlavamo poco fa. Una città che gli ha regalato premi, concerti nei teatri e canzoni. Poi, il trasferimento a Torino, per amore. Ma se oggi Federico Sirianni continua a vivere, a scrivere e a far base sotto la Mole è perché di quella Torino, in cui era arrivato con un po' di nostalgia per la sua Genova, alla fine si è innamorato.
Sirianni, che cosa significa essere un cantautore oggi, in un'epoca difficile da un punto di vista musicale e discografico?
«Significa essere completamente asincroni, sfasati dalla realtà, caratteristica che ormai mi porto dietro da parecchi anni, in realtà. Non che non esistano i cantautori oggi, anzi, ce ne sono tantissimi e molti anche piuttosto interessanti. Il problema è che spesso questa realtà diventa una realtà fantasma, perché non compare nelle zone ufficiali del mercato discografico. Da un certo punto di vista lavorare in un ambiente del genere è molto complicato, ma dall'altro è anche stimolante, perché ti spinge a reinventarti, a pensare progetti nuovi, a suonare molto in giro. In una parola, a crescere. Per questo i prodotti che alla fine riescono a emergere e arrivare al pubblico sono molto potenti».
Quindi c'è anche una sorta di selezione naturale fra gli artisti emergenti...
«Sì, assolutamente. Chi resta e chi riesce a sopravvivere di questo lavoro di solito ha davvero le carte per farlo, oltre a tanta passione e voglia di fare musica».
Si definisce asincrono, ma che rapporto ha con la realtà moderna, con i social network, con le nuove tecnologie?
«È vero, sono asincrono, ma mi trovo a esserlo contro la mia volontà. In realtà mi sento una persona molto contemporanea e vicina alle nuove tecnologie e ai nuovi mezzi di comunicazione. Per esempio, con mia figlia di tredici anni comunico più su whatsapp che di persona, perché mi sembra che si riesca a comprendere di più le nuove generazioni andando loro incontro anche sul piano dei mezzi di comunicazione. Facebook poi mi ha salvato la vita, senza un mezzo del genere non so se avrei potuto divulgare le mie canzoni così per tutta Italia. I social network sono uno strumento fondamentale per chi fa il mio lavoro: negli ultimi anni mi sono accorto che dovunque suoni ho un pubblico molto fedele che ha imparato a seguirmi sul web».
A proposito di sua figlia, le consiglierebbe una carriera artistica viste le difficoltà del settore?
«Sono assolutamente convinto che sceglierà lei cosa fare, senza avere nessuna forzatura da parte mia, anche perché se guardo al mio passato quando i miei mi mandarono a studiare chitarra classica mi ero annoiato a morte. Credo sia fondamentale seguire le proprie aspirazioni e passioni, indipendentemente dalle reali possibilità di successo».
Esiste un po' il cliché del cantautore genovese? E se sì, è un elemento positivo o negativo nel momento in cui si intraprende questo percorso?
«Io ormai mi presento come cantautore quasi apolide, visto che a Genova non ci vivo più da quindici anni, quando Torino mi ha accolto in maniera molto calorosa. All'inizio della mia carriera sicuramente c'era questa enorme tradizione della musica d'autore genovese: anzi, la mia era proprio quella che era definita la nuova scuola del cantautorato genovese. Purtroppo ebbe meno fortuna della vecchia scuola, sia per capacità sia perché si trattava di un'epoca storica diversa, ma indubbiamente iniziammo con quella leggenda, che un po' ci aiutava e un po' ci faceva ombra. Però noi vivevamo il fantasma di quei grandi musicisti che ci avevano preceduto con grande serenità».
È venuto a Torino per amore, ma poi c'è rimasto...
«Sì, anche quando l'amore è finito, Torino era ormai diventata la mia città. Qui è nata mia figlia, qui ho portato avanti la mia carriera per tanti anni. Torino è una città che mi ha accolto, professionalmente e personalmente, con molta generosità ed è una città in cui sto benissimo, che amo moltissimo».
Dal punto di vista lavorativo, per un musicista, è meglio la poetica Genova o la sperimentale Torino?
«Sono due realtà molto diverse, entrambe molto suggestive. Genova è in effetti città di porto, di frontiera, quindi ha un'atmosfera particolare, un po' cupa ma inevitabilmente magnetica. Inoltre ha una storia pazzesca, grandissima, che si sente pulsare in ogni scorcio e in ogni vicolo. A Torino c'è un ambiente molto diverso, più contemporaneo e per certi versi anche più stimolante. Torino è una città che ti permette di proporre quello che fai e quello che scrivi, e questo è fondamentale per un cantautore».
Cosa manca a Genova che invece Torino ha?
«Genova è una città molto ingenerosa con i suoi figli, per cui è molto difficile portare avanti le cose che qui vengono immaginate e create. Da Torino potrebbe imparare la concretezza, una certa fattibilità delle cose».
E invece cosa manca a Torino che Genova ha?
«Certe suggestioni, gli odori, i vicoli, certi personaggi molto particolari che sono cristallizzati nel tempo e che a distanza di vent'anni ritrovi agli stessi banconi, seduti agli stessi tavoli. Insomma, una capacità di raccontare storie unica».
Ci racconta una cosa che ama particolarmente di Torino?
«Ce ne sono tante, ma se devo sceglierne una ricordo una delle prime immagini che mi hanno colpito di questa città. Si tratta di un ricordo legato al primo Natale in cui ero a Torino, ed era uno dei primi anni in cui c'erano le luci d'artista. Mi portarono a Porta Palazzo e mi rimase impressa questa piazza brulicante di stranieri, illuminata da questa gigantesca gru blu. Quando penso a Torino quella è un'immagine che mi torna costantemente in mente».
E di Genova?
«Avendoci vissuto per molto tempo, il centro storico è il primo posto in cui torno quando vado a Genova. Ci sono vie incredibili, con nomi mai sentiti altrove, come il Vico dell'amor perfetto. Sono nomi molto “deanreiani”, che riflettono la poesia di alcune zone della città».
di Valentina Dirindin