E' quello che spinge un grande artista come Marco Paolini a mettersi sempre in gioco con sfide nuove. Che lo portano dai suoi spettacoli più impegnati a quelli più di intrattenimento, come il suo ultimo “Ballata di Uomini e Cani”, presentato al Carignano. Un omaggio a Jack London e al suo spirito d'avventura
Affidare pezzi della propria storia a un narratore non è cosa semplice. È necessario che il narratore sia bravo, sia uno fidato, per convincersi a separarsi da una parte di sé e lasciare che qualcun altro la racconti mettendoci del proprio. Marco Paolini – drammaturgo, regista, attore, classe 1956 – bravo lo è davvero. Forse il migliore, in quello che fa. Altrimenti, non avremmo potuto consegnargli a cuor leggero delle pagine così importanti della storia italiana (tragedie ancora avvolte dal mistero come Ustica o il Vajont, anni bui come quelli delle Guerre Mondiali), sicuri di averne indietro dei capolavori di narrazione. È con questo tipo di racconti, soprattutto con la tragedia del Vajont (sicuramente il suo spettacolo più famoso, pluripremiato e portato in televisione su Rai2 nel 1997, in occasione del trentaquattresimo anniversario del disastro), che Paolini è diventato uno dei massimi esponenti contemporanei del “teatro di narrazione”, regalando al grande pubblico la sua incredibile capacità di raccontare sul palcoscenico fatti reali, che parlano di noi. Ma un'artista è un'artista, e non si può confinare all'interno di un ruolo, di un personaggio, di un genere. È il motivo per cui Paolini ha deciso, questa volta, di portare a teatro (anche a Torino, al Carignano, dal 14 al 19 aprile) qualcosa di totalmente diverso dagli spettacoli che l'hanno reso famoso: “Non volevo essere vincolato da quello che la gente si aspetta da me”, ci dice spiegandoci questa scelta.
Marco Paolini, ci racconta questa sua “Ballata di uomini e cani”?
«È un tributo a Jack London: ho preso tre suoi racconti – Macchia, Bastardo e Preparare un fuoco, ndr – e ne ho tirato fuori uno spettacolo, dandogli la forma di una specie di canzoniere. Ho scelto dei racconti brevi e non un romanzo perché mi davano più libertà sul palco, la stessa libertà che ho ritrovato nel proporre al pubblico qualcosa di più leggero del solito, una sorta di gioco teatrale. Ecco, la chiave di questo spettacolo è forse la leggerezza: i contenuti non mancano, ma uno scrittore non va ridotto solo ai suoi contenuti, la narrazione è fatta anche del semplice piacere di essere fruita. Non esiste un “teatro d'avventura” a cui mi potessi ispirare, e quindi l'ho dovuto immaginare io, e l'ho pensato come fosse un fumetto: una forma di narrazione “leggera”, appunto. E sempre nella stessa ottica ho alleggerito le parole traducendole in musica, che in questo spettacolo non è un accompagnamento ma un elemento primario: spesso prende il testimone e dà voce ai personaggi».
La natura spesso aiuta a comprendere l'uomo, almeno nella sua parte più istintiva. È così anche in questo caso? C'è una volontà metaforica in questi racconti che parlano di cani?
«Nessuno dei racconti di London sfugge a una lettura di questo tipo. In particolare il terzo racconto che ho portato in scena, “Preparare un fuoco”, pur essendo un racconto molto avaro, molto asciutto, è una storia che non può lasciare indifferenti, perché è intrinsecamente ideologica, rispecchia fortemente il pensiero dello scrittore, la critica alla società che gli sta intorno. Ma in London si può trovare tutto e il contrario di tutto, era un uomo dalle mille idee, e ridurre la sua scrittura semplicemente al suo pensiero, come ho già detto, sarebbe riduttivo».
Perché, tra tanti autori classici, ha scelto proprio Jack London?
«Sono rimasto affascinato dalla sua vita, al punto che inizialmente volevo mettere in scena la sua autobiografia, ma poi ho optato per qualcosa di più asciutto e veloce. London magari è più “rozzo” di altri scrittori del suo tempo, la sua è una scrittura dettata dall'urgenza. Aveva questa assurda regola per cui doveva scrivere almeno 1000 parole al giorno, era come un vulcano che erutta parole: non tutte ovviamente hanno lo stesso peso, ma c'è comunque qualcosa di profetico in quello che scrive. Non è un caso che questo scrittore inizialmente un po' snobbato diventi poi una delle muse della Beat Generation».
Zanna Bianca, Il Richiamo della Foresta: London si rivolgeva a un pubblico di adolescenti. Con questo spettacolo lei ha l'ambizione di portare i giovani a teatro?
«In realtà non ci ho pensato, anche se ovviamente mi farebbe piacere. A differenza di altri miei lavori, come ITIS Galileo, che erano fatti per essere portati nelle scuole, questo non è stato creato in quell'ottica. Se è teatro d'avventura, la piglia chi la cerca, giovane o vecchio che sia».
Già, l'avventura. London era un avventuriero, uno che partì per la corsa all'oro nel Klondike. Lei si sente affine a lui in questo senso?
«No, per carità! Alla mia età, poi...».
Lei è il massimo esponente contemporaneo di un teatro documentaristico, il teatro di narrazione. Come si concilia la verità con il palcoscenico, che è il regno della finzione?
«In realtà è molto facile, basta pensare che in fondo la narrazione è una grande invenzione, anche quando serve per costruire elementi storici. Per questo parlare di cronaca comporta una maledetta e grandissima responsabilità, perché ogni costruzione è inevitabilmente un artificio. Io però questo l'ho capito, e non sono
a disagio: so che quello che racconto va aperto, scelto, montato. Non è naturale, è costruito».
Per questo tipo di teatro le attribuiscono molti discepoli, o eredi: Ascanio Celestini, Davide Enia, Giulio Cavalli, Mario Perrotta. Cosa pensa di questi giovani autori? Vede un passaggio di testimone?
«Trovo che sia sbagliato pensare a me come a un caposcuola. Quando ho iniziato ero a Settimo Torinese con Gabriele Vacis, e per un certo periodo ho lavorato con i suoi allievi, ma a provare a insegnare facevo solo danni, perché agli occhi degli spettatori quegli attori venivano sempre visti come miei cloni, quindi ho smesso. Quelli che lei ha citato stanno facendo dei meravigliosi percorsi in autonomia. Vede, quello che c'è da segnalare è che in tutte le arti del nostro paese c'è una costante attenzione a occuparsi della memoria, a costruire depositi di storia. Questa attenzione molto nobile a combattere l'oblio non trova paragone in nessun altro paese europeo, e nasce dalla consapevolezza che il nostro è un paese smemorato. Quindi io non sono per niente un capostipite di questa sensibilità artistica, bensì faccio parte di un grande e importante sforzo collettivo in questo senso».
Come diceva prima, lei ha iniziato la sua carriera teatrale a Settimo Torinese. Che ricordo ha di Torino?
«Io ho vissuto la Torino degli anni Ottanta, e negli anni ho misurato il cambiamento. Ho visto cosa è successo nel passaggio post industriale, e via via ho visto fiorire la bellezza di questa città, ho visto il suo sforzo per farsi guardare, per farsi ricordare, per non essere mai banale. Uno sforzo condiviso da tutti i cittadini. Per questo oggi si può dire che Torino esprime probabilmente il più alto livello di civismo del nostro paese. Certo, ci sono cose difficili, cose ancora da migliorare, ma ciò non toglie nulla alla stima che ho di Torino e dei Torinesi».
di Valentina Dirindin