L'ultimo album di Daniele Silvestri è un lavoro che parla di emozioni, di vissuto e della difficoltà di trovare un equilibrio. La critica lo considera uno dei suoi migliori dischi, il pubblico lo ama in ogni caso. Perché, dopo averlo visto in concerto, è difficile non innamorarsi di lui, sarà il 22 luglio, al Flowers Festival
L'equilibrio è una cosa fondamentale, che cerchi fin da quando sei piccolo, provando a reggerti in piedi da solo e lasciando andare piano piano la mano della mamma. Chissà se a Daniele Silvestri l'ispirazione per parlare di equilibrio, di acrobati e di funamboli (i temi del suo ultimo disco, “Acrobati”, appunto) è arrivata da lì, osservando i primi passetti del suo piccolo pupo, nato due anni fa dal matrimonio con l'attrice Lisa Lelli. Il terzogenito di Daniele (che ha altri due figli di quattordici e tredici anni) è lì che si fa sentire, mentre facciamo l'intervista, e inevitabilmente si finisce a parlare di cosa significhi essere genitori. Un ruolo difficile, impegnativo. Soprattutto per chi per lavoro passa tanto tempo lontano da casa. Soprattutto per chi conosce così bene il mondo in cui viviamo, per averlo analizzato, criticato, sviscerato in alcune delle sue canzoni più belle e più note. Perché la forza di Daniele Silvestri è sempre stata quella di essere un cantautore “politico”, un interprete della società, un narratore della contemporaneità anche nelle sue sfaccettature più nere. Ma, arrivato vicino ai cinquant'anni, dopo averne passati la metà su palcoscenici di successo, ha deciso di dire basta, e di diventare un cantautore più “poetico”. È curioso che questo accada dopo il tour che lo ha portato a dividere il palco con i colleghi e amici i sempre Niccolò Fabi e Max Gazzè. È curioso perché la sensazione è che si siano influenzati l'un l'altro, in una sorta di permeabilità artistica dai risultati inattesi. Così, Niccolò, poeta della canzone, finisce a parlare in modo critico nel suo ultimo disco di quel che “ha perso la città” e Daniele, cantore politico, decide di scrivere di emozioni. Eppure, non si scappa da se stessi, e – nonostante le dichiarazioni di intenti – a ogni domanda Daniele Silvestri finisce col rispondere parlando di massimi sistemi, di problemi sociali, di collettività. Perché, in fondo, «è una deviazione che mi porto dietro da tanto tempo, anche quando racconto storie piccole, perché il piccolo particolare in sé racchiude riflessioni, emozioni, paure che sono collettive». Insomma, anche su questo Silvestri ha cercato di trovare un equilibrio. I suoi concerti sono davvero una carica energica, dove chi è sul palco si spende fino allo sfinimento per il pubblico, che ricambia amando incondizionatamente, si parli di politica o di emozioni. A Torino, Daniele Silvestri farà tappa il 22 luglio al Flowers Festival (www.flowersfestival.it).
Che disco è “Acrobati”?
«È un disco abbastanza sorprendente, per quanto mi riguarda. Lo è per come è arrivato e per l'entusiasmo che ha creato. Non solo in me, perché questo
è un disco plurale, fatto con tante persone. È un disco che arriva dopo tanti anni di carriera e dopo un'esperienza particolare, rigenerante, determinante: quella fatta con Niccolò Fabi e Max Gazzè. Quell'esperienza mi ha ricaricato le batterie, dandomi l'occasione di riflettere su vent'anni di carriera. Avevo per le mani un sacco di materiale e avevo tante storie, tante cose da raccontare, anche più di quelle che poi ho fermato su un disco».
Ha detto che in questo discoc'è meno attualità è più poesia, più intrattenimento. Perché? Si è stancato di trasmettere messaggi politici?
«Credo che sia quasi un dovere interpretare la realtà che ci sta intorno, l'ho fatto per tanti anni e continuo a farlo. Solo, non ho più l'urgenza di pensare di dover raccontare per forza l'attualità, calandomi nel quotidiano. Non per paura o timore, ma più che altro per una questione anagrafica. Penso di avere meno diritto di interpretare l'oggi rispetto a chi ha vent'anni meno di me, e lascio il compito a loro. In questo momento
mi interessa allargare un po' lo sguardo, raccontare il futuro e il passato, anziché soffermarmi solo sul presente».
La figura dell'acrobata fa subito venire in mente l'equilibrio. Cosa può dare equilibrio nella vita?
«È complicato: c'è un intero disco che prova a dirlo, senza mai trovare una riposta. La ricerca dell'equilibrio è molto soggettiva. In realtà, io ho provato a spiegare come l'equilibrio sia qualcosa di inevitabilmente dinamico, e questo ha anche degli aspetti positivi. Un funambolo deve muoversi per restare in equilibrio, deve riconfermare quell'equilibrio in ogni istante perché si deve misurare anche con l'inatteso, con il colpo di vento imprevisto. L'equilibrio è il risultato di forze che si contrappongono, e bisogna essere pronti a ritrovarlo in ogni momento, indipendentemente da quello che ci succede intorno. Poi, se vogliamo andare più in profondità, bisogna ammettere che viviamo in un mondo che non ci dà equilibrio, non ci dà prospettive e non ci fa vedere cosa c'è davanti al cammino, né singolarmente né collettivamente. E invece ne avremmo bisogno, quindi è necessario cercarlo anche se nessuno ci fornisce i mezzi o le istruzioni per vivere il quotidiano».
In questo disco ci sono testi che affrontano temi difficili: l'abuso di alcol giovanile (“Un altro bicchiere”), la violenza domestica (“Monolocale”). La spaventa questo mondo, soprattutto in qualità di padre di due figli quasi adolescenti?
«C'è paura, sicuramente, ma c'è anche una continua fascinazione. Viviamo in un mondo difficile, che può spaventare, soprattutto un genitore, che è per antonomasia colui che si deve preoccupare del futuro. Però il mondo è fatto di tante cose che lo rendono affascinanti, anche quando si raccontano i suoi aspetti peggiori».
Che tipo di padre è Daniele Silvestri?
«In parte sono protettivo: vorrei preservare i miei figli, aiutarli ed educarli. A volte però mi rendo conto che su tante cose sono più avanti, conoscono il mondo anche meglio di me. Anche lì sono alla ricerca di un equilibrio, perpetuamente in dubbio io stesso sul fatto che le cose che so siano giuste e utili per loro. Insomma, non so mica se lo so fare bene, il genitore. Ma non c'è modo di avere un manualetto per questo, perché anche se ci fosse invecchierebbe subito: si può solo cercare di migliorarsi in continuazione. Certo, il fatto di stare spesso lontano da casa mi fa sentire sempre in difetto...».
A questo proposito, sarà in tour tutta l'estate: questa parte del lavoro è più stancante o più divertente?
«Ormai sono tanti anni che faccio una vita schizofrenica, in cui si alternano momenti opposti: quelli di adrenalina della tournée e quelli in cui passo mesi chiuso (in una stanza o nella mia mente) a scrivere. Ma ci sono abituato e in fondo mi piace, perché una fase dà valore ed essenza all'altra per contrasto. Quando ritorno e sto un po' a casa ho delle motivazioni e delle energie in più, perché magari sono stato tanto tempo lontano. Si potrebbe quasi dire che è una condizione perfino un po' privilegiata, che mi permette di godere a pieno entrambi gli aspetti della mia vita».
In questo album ci sono diverse collaborazioni, tra cui quella con Caparezza, artista che come lei ama giocare con le parole. Come è stato lavorare con lui?
«Adoro Caparezza, e la cosa è reciproca. È successo tutto in modo molto libero e spensierato ed è stata una delle collaborazioni più divertenti della mia vita, più sensate. Direi quasi inevitabile, doveva capitare. Lui per me è un maestro nel gioco delle parole e so che pensa qualcosa di simile di me, quindi è stato bellissimo lavorare insieme».
Quando uscirà questa intervista Roma avrà un nuovo sindaco. Al di là dei pronostici, che cosa si augura per la sua città?
« Quel che spero per la mia città è difficile che dipenda dal sindaco che verrà fuori. Roma arriva da un'alternanza di fallimenti, per errori o per malafede, che rende chiaro che c'è una rete di interessi e di poteri che controlla la città e continua a esistere a essere forte. È quella la vera battaglia da fare, per questa città e per tutto il Paese, perché Roma è l'esempio perfetto di ciò che siamo a livello nazionale. Sarebbe bello avere delle istituzioni che sappiano pensare e disegnare un percorso. Che sappiano coinvolgere i cittadini, anche chiedendo dei sacrifici, ma nel nome di un progetto costruito sulle idee e non solo su risposte immediate a problemi che parlano alla pancia degli elettori».
Invece, al referendum costituzionale ha già deciso cosa votare?
«Non ho ancora deciso e mi è molto difficile riuscire a essere sufficientemente sereno (o forse cinico) per decidere se vale la pena di puntare
a cambiare le cose senza star lì a guardare come viene fatto. Insomma, il fine giustifica i mezzi? A me non piacciono i modi in cui si è arrivati a questo referendum, il modo in cui viene raccontato, ma allo stesso tempo ho sempre pensato che uno dei problemi dell'Italia fosse la sua incapacità di cambiarsi. Qualsiasi cosa deciderò, sarà comunque una scelta difficile perché di compromesso. Quindi già so che alla fine non sarò contento».
Che rapporto ha con Torino?
«Ho un grandissimo sentimento di gratitudine verso questa città, perché è stata quella che mi ha artisticamente battezzato, all'Hiroshima Mon Amour. Quel ricordo rimane scolpito nella mia memoria e nel mio cuore. È stato il primo concerto in cui ho avuto la sensazione che il pubblico fosse lì per me, a cantare le mie canzoni. È stato il luogo che mi ha fatto credere che davvero potevo fare questo mestiere. Oggi, dopo tanti anni, in occasione del compleanno dei Subsonica, mi sono ricordato che vent'anni fa c'era un gemellaggio musicale molto forte tra Roma e Torino, c'era un filo diretto in cui si scambiavano tante cose e idee nuove, molto forti, piene di energie. Erano due scuole che nascevano, anche se non sapevano di esserlo».