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Carissimi:"È il momento di una svolta nel calcio femminile"

Quando Marta Carissimi, centrocampista torinese dal curriculum importante, venticinque anni fa ha iniziato a giocare a pallone non era certo un mondo facile. Oggi fa la consulente e cerca di portare le aziende a investire nel calcio femminile

di Valentina Dirindin

Torino, Inter, Verona, Fiorentina, Milan, e in mezzo una stagione nella squadra islandese Stjarnan, con cui conquista la coppa. E poi la Nazionale Italiana, dal 2009 al 2017, con 55 presenze in campio e tre reti segnate. Risultati importanti, insomma, e se qualcuno sente il bisogno di aggiungere "per una donna" a questa frase è perché il calcio femminile, in Italia, ha ancora tanta strada da fare.
Quello del calcio, qui da noi, è un mondo ancora a prevalenza maschile, in campo e fuori dal campo. Una religione a cui sono ammessi solo gli uomini, e ogni eccezione viene vista con diffidenza. “Cosa ne vuoi sapere, tu, di calcio, se sei una femmina?” dicono ancora in troppi.

Ma pian piano, la grinta di giocatrici comeMartaCarissimistapermettendoal calcio femminile di emergere per quello che è: uno sport tra i più belli del mondo, aperto a tutti, indipendentemente dal sesso. E oggi che Marta ha attaccato le scarpette al chiodo ha deciso di puntare proprio sul raccontare questo mondo, e convincere gli investitori a credere nelle donne del calcio.

Come ha iniziato a giocare a calcio?

«Ho un fratello più grande di un paio d'anni che giocava, quindi come spesso accade in famiglia l'ho un po' emulato. Con gli amici, in cortile, abbiamo sempre giocato insieme e mi piaceva. Nel frattempo facevo altri sport: judo, nuoto e poi pattinaggio su strada, ma poi ho capito che la mia vera passione era il calcio e l'ho seguita».

È stato facile per una bambina avvicinarsi a un mondo prettamente maschile?
«Io ho certamente avuto la fortuna di essere sempre stata appoggiata nelle mie scelte. Nessuno mi ha mai ostacolato, e la mia famiglia mi ha sempre lasciato libera di fare quello che più preferivo, con l'unico obbligo di andare bene a scuola. Però qualche episodio spiacevole c'è stato, anche se io lo ricordo più con il sorriso. Banalmente, c'era la problematica dello spogliatoio: per cambiarmi dovevo aspettare che i miei compagni finissero la doccia. Qualche battutina c'era, magari quando pensavano che la bambina in squadra fosse un mio compagno con i capelli un po' più lunghi. Ma io sono stata fortunata, mi sono sempre fatta rispettare da tutti. Certo, credo sia anche una questione di carattere: magari qualche altra ragazza avrebbe potuto patire di più».


Qual è stato l'apice della sua carriera? 

«Ogni squadra e ogni passaggio che ho fatto ha dei momenti chiave, è stato un percorso di crescita. I momenti migliori li ho avuti nella stagione 2014-15, quando ho vinto lo scudetto col Verona. Arrivavo dall'Islanda, dove avevo vinto campionato e coppa, e poi sono passata alla Fiorentina, e anche con loro vinto campionato e coppa. Forse quegli anni lì sono stati quelli di maggiore maturità personale e calcistica».

Perché ha smesso e ha deciso di fare altro?
«Nonostante io abbia sempre fatto una vita calcistica, bisogna ricordare che per ora gli sport femminili non sono considerati una professione. Al di là dell'aspetto economico, c'è quello previdenziale: in 18 anni per lo Stato è come se non avessi fatto nulla. Ho sempre saputo che non avrei potuto fare quello a vita: per questa ragione mi sono concentrata anche sul dopo, e ho studiato, laureandomi in ingegneria gestionale, mentre giocavo ho iniziato anche a lavorare, è stato molto faticoso, ma alla fine è stata una scelta naturale: dopo diciotto anni sul campo mi sono detta che era finito un percorso ed era ora di aprirne un altro. Nel frattempo le cose nel calcio femminile sono cambiate, e io lo toccavo con mano: è stato il segnale che mi ha permesso di immaginare un futuro lavorativo rimanendo all'interno del mondo del calcio, che comunque è sempre stata la mia grande passione. Così, la scorsa stagione ho chiuso e sono diventata consulente sportiva in ambito marketing».

Cosa fa come consulente?

«Cerco di portare le aziende a investire nel calcio femminile. Ho sempre conosciuto il sistema dall'interno e negli anni ho costruito una bella rete di relazioni. Ora è il momento di svolta del calcio femminile: dalla stagione 2022-2023 la serie A femminile diventerà uno sport professionistico. Questo cambia molto le cose, tutelando le giocatrici ma anche i club, visto che oggi le campionesse appena possono scappano all'estero dove possono avere un contratto di lavoro. In quest'ottica di crescita l'apporto delle aziende diventa molto importante, e le possibilità di mercato sono interessanti. Con un budget di investimento minimo, soprattutto se confrontato ad altri sport, si possono avere ritorni di visibilità molto alti».

Quanto guadagna oggi una giocatrice di serie a?
«Non c'è una vera risposta a questa domanda. Fino a tre anni fa le calciatrici potevano guadagnare al massimo 30mila euro lordi l'anno, ma ora questi vincoli sono un po' cambiati, con l'inserimento di accordi pluriennali più vantaggiosi. In questo momento il livello dei compensi si è un po' alzato, ma è ancora tutto molto particolare, essendo un mondo di dilettanti e non di professionisti». 

Perché si investe e si crede così poco nel calcio femminile?

«In Italia il problema di fondo è un retaggio culturale che proietta alcuni stereotipi professionali sugli uomini e altri sulle donne. Questo è stato particolarmente evidente nel calcio, ma finalmente la rotta si è invertita. La Federazione ha messo in campo una strategia di sviluppo importante, che sta permettendo al calcio femminile di crescere. All'estero sono dieci, vent'anni avanti su questo, per cui bisogna recuperare terreno e accelerare il più possibile questo procedimento. Però oggi non è più un problema se una bambina vuole giocare a calcio, e questa è senza dubbio la cosa più importante».

ph. Facebook Marta Carissimi

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