Erbari d’autore al Castello di Miradolo
Il termine “erbario” porta con sé alcuni concetti come collezione, classificazione, catalogazione, studio, memoria: questa dimensione metodologica e formale non ha soltanto caratterizzato la produzione di erbari storici che coniugavano la conoscenza del reale a una innegabile qualità estetica, ma ha anche suggerito ad artisti moderni e contemporanei differenti possibilità di esplorazione di linguaggi e di relazione con la natura e i suoi elementi.
La mostra Di erbe e di fiori. Erbari d’autore. Da Besler a Penone, da De Pisis a Cage, in programma al Castello di Miradolo di San Secondo di Pinerolo (TO) dal 22 marzo al 22 giugno 2025, intende costruire un dialogo tra alcune pagine di erbari storici con la visione di alcuni artisti che attorno alla riflessione sulla materia e sugli elementi della natura hanno costruito opere che sono specchio del proprio tempo e del presente. Gli erbari storici di Carlo Allioni, Basilius Besler, Carlo Lupo, Pierre Edouard Rostan, Camillo Sbarbaro, Ada e Alfonso Sella diventano un controcanto alle opere di Vincenzo Agnetti, Björn Braun, Chiara Camoni, Adelaide Cioni, Betty Danon, Filippo De Pisis, Piero Gilardi, Giorgio Griffa, Wolfgang Laib, Ugo La Pietra, Christiane Löhr, Mario Merz, Helen Mirra, Richard Nonas, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Robin Rhode, Thomas Schütte, Alessandra Spranzi e Michele Zaza. Al di fuori delle sale, il Parco del Castello di Miradolo, con le sue essenze, le sue specie, le sue architetture vegetali, a dialogare con l’esposizione - curata dalla Fondazione Cosso e da Roberto Galimberti, con la consulenza iconografica di Enrica Melossi - e a mostrare un tempo, anch’esso sospeso tra storia e futuro.
Le opere presenti in mostra intendono indagare temi come la necessità dell'uomo di classificare e misurare il mondo che lo circonda non soltanto per conoscerlo ma anche per svelarne il mistero o per esorcizzare le proprie paure, la pazienza e la cura di gesti che, nella apparente ripetizione, si scoprono differenti e ancestrali insieme, la fragilità di una materia, che nel suo mostrarsi effimera, sembra sfidare il tempo.
Il percorso espositivo si apre con l’opera di Helen Mirra: la tela sembra nascondere e svelare insieme l’antefatto di una narrazione, anticipando, nella trama, i segni che, come reperti, sono registrazione e memoria. La composizione di un erbario presuppone la pratica del camminare: nella poetica di Helen Mirra, percorrere lo spazio diviene esercizio di conoscenza, di etica, di cura. Le Trentatré erbe di Giuseppe Penone sono un’azione di frottage: i calchi delle erbe, con l’azione della mano dell’artista, raccontano una profonda riflessione sul rapporto uomo-natura, dove l’impressione delle erbe dialoga con la parola che muta e si trasforma sulla struttura vegetale. Nelle 14 tavole del ciclo Da un erbario raccolto nel 1979 in Woga-Woga, Australia di Mario Merz, la numerazione della sequenza di Fibonacci sembra decifrare le proporzioni delle foglie, fissate sulla pagina con adesivi visibili. Le due raccolte, in dialogo tra loro, tracciano prospettive differenti e complementari sul tema dell’erbario: la parola abbandona il suo essere nome o luogo per farsi poesia, evocazione senza definizione, segno e suono; il numero, al contrario del suo immaginario legato all’ordine e alla struttura, non determina poiché procede all’infinito, verso un ignoto inafferrabile e indefinito. Ugo La Pietra “amante e raccoglitore di “essenze” da erbario” descrive così i suoi Libri aperti: “Ho cercato di lasciare più profonde tracce, incidendo libri di ceramica ingobbiata. Tracce e non reperti: impossibili da raccogliere perché inventate, destinate a essere conservate nel tempo. La materia si svela e il contenuto è colto da chi lo legge”.
Il lavoro di Richard Nonas conserva una tensione costante con la sua formazione di antropologo: “L’antropologia mi ha fatto il dono del dubbio permanente. Ma la scultura mi ha obbligato a usarlo”. In Grey Garden, le forme di metallo e pietra, nello spazio della sala, sembrano riscrivere i cammini e le traiettorie di un giardino simbolico che non cambia per la natura dei suoi elementi, ma nella relazione con esso, nelle sue percorrenze, nelle sue rotte, nei suoi sentieri immaginari giocati sulla differenza. La passione per gli erbari, che lo farà diventare lichenologo di fama internazionale, del poeta Camillo Sbarbaro nasce da bambino, nelle passeggiate in Liguria col padre. Sbarbaro ha raccolto 2.574 esemplari oggi conservati al Museo di Storia Naturale di Genova. “Sui licheni scrissi fin troppo – disse a Montale – nessuna conoscenza specifica, solo curiosità, piacere visivo, simpatia: la stessa che mi fa avvicinare a tutto quello che non è vistoso, per gli altri senza importanza, misero. I licheni sembrano lo specchio di una frammentarietà poetica antitetica ed esistenziale, di una marginalità consapevole”.
Un grande tavolo antico, unico arredo rimasto nel Castello di Miradolo dopo l’abbandono, ospita l’Erbario di Chiara Camoni: 14 fogli di porcellana smaltata con minerali e cenere vegetale accolgono altrettante erbe che, dopo la cottura e l’incenerimento a 1.300 gradi insieme a polveri che mineralizzano e vetrificano, somigliano o disattendono la propria immagine originaria. Le pagine dei Foliage di Alessandra Spranzi svelano per trasparenza, grazie all’olio che imbeve la carta, le immagini del retro: la dimensione visiva si contamina, ciò che è pensato per essere visto da solo diviene contemporaneo di ciò che è passato o che attende nel futuro. L’opera Venti frammenti di Giorgio Griffa, del 1980, viene proposta dall’artista in questa veste, appositamente per una Sala del Castello nel 2021: la testimonianza di un incontro, di una storia condivisa che è proseguita nel tempo.
Seguendo il percorso espositivo nella Manica Storica, si passa all’Hortus Heystettensis, il farmacista tedesco Basilius Besler raffigura, a grandezza naturale, le 1.084 piante del giardino del vescovo Johann Konrad von Gemmingen, suo committente nella Norimberga di inizio ‘600. Le piante ed erbe sono impresse su 367 tavole di rame e acquerellate a mano su carta vergellata, una per ogni giorno dell’anno e divise nelle quattro stagioni. Si tratta di un erbario figurato considerato un capolavoro dell’illustrazione botanica in cui, oltre agli aspetti di natura propriamente scientifica, il chiaroscuro e la disposizione elegante delle piante sembrano inseguire, nella dimensione estetica, il sogno impossibile di un giardino eternamente vivo ed in fiore. In dialogo con l’Hortus Eystettensis di Besler e con i decori floreali e geometrici della volta della sala, affiorati dopo il restauro, l’opera di Christiane Löhr sembra anch’essa interrogare la transitorietà del tempo. I materiali naturali delle sue sculture leggere e impalpabili abbandonano i contesti che li hanno generati per racchiudere spazi d’altrove. Il gesto trascende la manualità quotidiana per cercare proporzioni nuove e sospese, in una metafisica dell’invisibile.
Il giovane Filippo De Pisis, dal 1907, raccoglie più di mille erbe, classificate in una collezione donata all’Orto Botanico di Padova tra il 1916 e il 1917. Oltre l’intento botanico, nelle composizioni affiorano alcuni aspetti che caratterizzeranno la pittura cui De Pisis si dedicherà soltanto diversi anni più tardi. Nelle opere esposte, le tracce del vero sembrano sconfinare le forme. De Pisis non fissa l’immagine dei fiori, sono i fiori stessi che, seppur recisi e in vaso, sembrano sbocciare nel colore stesso. Dopo gli studi in medicina, Wolfgang Laib si dedica alla pratica artistica. Le sue sculture e installazioni si compongono di materiali naturali, reinterpretati in forme, strutture e costruzioni ispirate alle filosofie orientali, alla sensibilità buddista, all’esoterismo, al misticismo e all’ecologia. Elementi come il latte, la cera d’api o il polline, spesso legati al nutrimento e al sostentamento, appaiono come simboli della vita in potenza e conferiscono alle sue opere una dimensione sospesa tra passato e presente, tra transitorietà ed eternità. Laib raccoglie il polline dal 1977, dall’inizio della primavera all’inizio dell’estate: per mesi scuote il polline dagli alberi poi, accovacciato, lo deposita e lo sparge, in una pratica ripetitiva che, come un mantra, ricerca l’equilibrio e l’armonia che regolano il mondo e l’opera dell’uomo, custode dell’universo.
Artista concettuale e poetessa visiva, Betty Danon ha costruito la sua ricerca artistica sul segno e sul suono. Uscita volontariamente dai circuiti convenzionali dell’arte nel 1979, nei Green Sounds delicate composizioni di piccole piante e fiori riposano sul pentagramma e, in analogia con il suono, sembrano attendere la loro fioritura che, nel linguaggio musicale, è l’inserimento in una melodia di una o più note la cui funzione spesso si compie soltanto nell’esecuzione. Nel 1977 Michele Zaza realizza un ciclo di opere intitolate Coltivazione: una di queste, mostra la figura del padre (dell’artista) che osserva una sottile linea di terra sul pavimento da cui germogliano fiori di fil di ferro e ovatta. La fotografia per l’artista è strumento narrativo: il cotone, il pane, la carta, la terra, la casa, la madre e il padre diventano archetipi di narrazioni intime in cui lo spazio, da terreno, diviene celeste.
Il percorso si sposta poi nella Manica Nuova, con il lavoro di Adelaide Cioni, in cui lo sguardo sulla natura si rivolge al metodo, alla ripetizione come vibrazione, come traccia, come variazione. Kew. A Conversation in Green, sia nella sua forma di film in super8 e sia negli acrilici su carta, diviene declinazione, un piegarsi o chinarsi continuo, dello sguardo o della mano, nella differenza e nell’unicità delle cose. l’Erbario di Pierre Edouard Rostan, medico e appassionato botanico delle valli valdesi, racconta una natura in movimento, di piante che emigrano, si spostano o spariscono. Oltre duemila fogli raccolgono i suoi studi botanici e sembrano coniugare, in uno spirito che va al di là della distinzione tra le discipline presente nella cultura del tempo, la scienza come strumento di conservazione della memoria e il sentimento della comunità come permanenza della sua storia nel tempo.
Carlo Lupo fu pastore valdese e poeta, teologo cristiano e conoscitore del buddismo, soldato in trincea durante la Grande Guerra, sostenitore della Resistenza e pacifista. Della sua corrispondenza con la fidanzata Lily Malan, sono rimasti solo i fiori raccolti in tempo di guerra e acclusi alle sue lettere, un involontario Erbario sentimentale custodito in piccole buste, racconto e memoria di un tempo sospeso tra amore e morte, scampato all’oblio. La ricerca artistica di Thomas Schütte spazia dall’architettura alla decorazione, dall’installazione al disegno e alla scultura. Figure e ritratti in vetro, in bronzo, in alluminio, in ceramica, sembrano svelare le possibilità narrative nella materia da cui prendono forma. Una inedita leggerezza si legge nell’opera Senza titolo: la luce, la linea, il colore e i volumi si fanno, sulla carta strappata di un quaderno d’appunti, strumenti di un racconto intimo e umano, di una piccola storia delicata e struggente.
Trent’anni di ricerche botaniche, dal 1954 al 1984, sono racchiuse nei 2.539 fogli che compongono l’Erbario di Ada e Alfonso Sella. Alfonso Sella, appassionato naturalista e botanico, insieme alla moglie Ada, ha raccolto, essiccato e preparato esemplari d’erbario per tutta la vita. La pronuncia del titolo dell’opera di Giulio Paolini Palais des Thés è la stessa di Palais d’Été: l’omofonia sembra sottolineare l’ambiguità delle prospettive, tra natura e architettura, tra Oriente e Occidente. Anche le foglie, che caratterizzano la decorazione verticale al centro, sembrano giocare sulle possibilità dei piani: le linee conservano una dimensione progettuale e astratta mentre le pieghe dividono la pagina nella sua struttura materiale. Per Piero Gilardi, l’arte, che nel suo lavoro si coniuga con una riflessione sul rapporto tra Uomo e Natura, è sempre stata strumento di consapevolezza del quotidiano, metodologia di militanza e partecipazione. Il Tappeto Natura, accompagnato da alcuni disegni preparatori dialoga nella sala con una lettera del 1966: una scrittura lucida e poetica traccia orizzonti nuovi e inattesi per l’artificio e per la materia che, artificiale come i suoi tappeti, sembra scoprire la possibilità di plasmarsi sul ritorno, organico e inevitabile, dell’assenza della fine.
Carlo Ludovico Allioni è considerato uno dei massimi esperti di scienza botanica e medica del XVIII secolo. Nato a Torino, instaurò con Linneo un serrato rapporto di confronto scientifico e attuò per primo una sistematica rinominazione della flora piemontese in senso moderno. I risultati della sua più che ventennale ricerca furono pubblicati nel trattato Florae pedemontanae Icones del 1789: le tavole, incisioni in rame di Pietro Peyrolery tratte dai disegni dal vero del padre Francesco si contraddistinguono per una mise en page chiara, sobria ed elegante. Contrapposte alla chiarezza scientifica del lavoro di Allioni, due tra le ultime opere di Vincenzo Agnetti della serie delle Photo-Graffie realizzate dal 1979 al 1981. Il potenziale espressivo della fotografia viene letto attraverso l’alterazione del suo processo: con l’esposizione alla luce della pellicola e il conseguente azzeramento dell’immagine originaria, il disegno o il graffio si trasformano in segni che cercano di recuperare l’elemento figurativo nascosto sotto la superficie. L’opera di Robin Rhode, Harvest (Raccolto) chiude il percorso espositivo nella Cappella del Castello: le immagini in bianco e nero che ritraggono l’azione del soggetto (l’artista stesso) in dialogo con la pittura, sfumano l’una nell’altra, in una sospensione del tragico che si compie nella frammentarietà. Una teatralità dei gesti che sembra specchiarsi ed evocare quelli dipinti negli affreschi della Cappella, in cui gli episodi della vita di San Giovanni alternano, come nell’opera di Rhode, violenza e dolcezza, dolore e cura.
L’INSTALLAZIONE SONORA
Al quiz Lascia o Raddoppia?, il 26 febbraio 1959, John Cage si presenta come esperto di funghi; nel settembre dello stesso anno tiene il corso Mushroom Identification alla New School for Social Research di New York; nel 1962 è tra i fondatori della New York Mycological Society. Nel 1972, insieme a Lois Long, scrittrice e designer, e al micologo Alexander Hanchett Smith, pubblica The Mushroom Book, un libro d’artista in 75 esemplari con 20 litografie non numerate in carta giapponese traslucida, in cui rielabora la tecnica del collage, distribuendo sulla pagina parole e immagini che ricalcano la struttura delle spore. Questa premessa sembra chiarire la relazione tra la musica di Cage e i funghi: “Sono giunto alla conclusione che si può imparare molto sulla musica dedicandosi ai funghi (…): più li si conosce e meno ci si sente sicuri sulla loro identità, danno scacco matto ai nostri tentativi di classificazione e di indagine”. Se la composizione musicale è un processo e non un oggetto, allora l’artista, secondo Cage, ha il compito di lasciare che i suoni (anche quelli che riempiono il silenzio) semplicemente siano senza scopo, sparsi, casuali, indeterminati. La musica non è trasformazione del mondo, è restituzione della complessità del suo suono.
L'installazione sonora, a cura del progetto Avant-dernière pensée, è una rilettura del brano In a Landscape, che John Cage compone nel 1948, in cui una lenta sequenza di note omoritmiche al pianoforte, separate tra loro dallo stesso intervallo, tracciano un paesaggio sonoro che è un omaggio alla musique d’ameublement (musica d’arredo) di Erik Satie. Nell'installazione, due pianoforti eseguono la partitura simultaneamente e, nella libertà dell'andamento che il brano prevede, sottolineano l'impossibile coincidenza tra le interpretazioni. Il sistema di diffusione del suono progettato per le sale espositive costruisce lo spazio, ne muta i confini percettivi e sottolinea lo iato che intercorre tra il pensiero dell'esecuzione e il suo farsi suono, come se la ricerca dell'idea musicale che si compie nell'azione del suonare dovesse essere trovata "nello stesso modo in cui si trovano i funghi selvatici nella foresta, semplicemente guardando". O ascoltando.
Parallelamente alla mostra si articolerà il progetto Da un metro in giù: un percorso didattico per i visitatori di tutte le età per imparare, con gli strumenti del gioco, a osservare le opere d’arte e la realtà che ci circonda. In programma anche una serie di incontri di approfondimento sulle tematiche e sulle opere esposte in mostra Mezz’ora con… curati da Enrica Melossi.