Guido Catalano, poeta moderno
Fa centocinquanta date l'anno, in tutta Italia, portando in giro le sue poesie. Un lavoro ironico, carismatico, molto personale, che lo rende un personaggio unico nel suo genere
Di poeti così, in giro, non ce ne sono tanti. Anzi, forse non ce n'è nessuno. E non è un caso se i reading in pubblico di Guido Catalano sono così seguiti. Se il pubblico lo ama così tanto e così fedelmente, forse è proprio perché quello che si trova in lui non è facile riconoscerlo altrove.
È un poeta moderno, Guido Catalano. Uno scrittore-artista che racconta la realtà che viviamo tutti quanti, che mette in versi la modernità, usando parole quotidiane, sdoganando talvolta le parolacce, utilizzando quando serve la durezza necessaria a descrivere la contemporaneità. Senza mai perdere l'ironia, punto chiave di tutti i suoi scritti, e senza mai una sbavatura che faccia pensare alla critica che, dietro a quella chiave pop, non si nasconda un vero intellettuale.
A Torino, Catalano ha sempre riempito locali, sale concerti, circoli ricreativi. E da qualche anno, con tour infiniti (centinaia le date in tutta Italia) la sua fama si è estesa molto oltre il Piemonte. Il tutto, leggendo poesie live. Una cosa da non credere, finché non si è vista almeno una volta.
Perché le poesie di Catalano sono davvero fatte per essere lette, raccontate, interpretate da lui, che sembra un personaggio scovato da Chiambretti, un intellettuale un po' burbero e ombroso che ha la sua forza maggiore nel non prendersi mai sul serio.
È uno scrittore fatto e finito, Guido Catalano, con sei libri di poesie alle spalle (gli ultimi due, “Ti amo ma posso spiegarti” e “Piuttosto che morire m’ammazzo”, editi da Miraggi Edizioni, hanno venduto circa 20mila copie) e un romanzo, uscito con Rizzoli quest'anno, “D'amore si muore ma io no”. Insomma, è uno che il rispetto della critica e dei lettori se l'è sudato sul campo. Eppure, è come se le sue poesie fossero sempre un gioco, un divertissement, nulla di serio. Probabilmente, è proprio questa la sua forza maggiore, quella che l'ha reso tanto amato dal suo pubblico, quella che porta le persone ad andarlo ad ascoltare con tanto entusiasmo, come è successo nel tour appena concluso e come di sicuro succederà nel prossimo tour, che inizierà nell'anno nuovo.
Guido Catalano, poeta. Ma esattamente cosa significa essere un poeta oggi?
«Non ho idea di quello che significhi in generale, io posso dirvi cosa significa per me. Per me è una condizione di vita, che è incredibilmente diventata anche la mia condizione lavorativa. Essere un poeta, oggi, non credo che sia tanto differente dall'esserlo stato cent'anni fa. Certo, noi non siamo poeti che se ne stanno chiusi a scrivere tra quattro mura; dalla nostra parte abbiamo la tecnologia, che ci aiuta a far conoscere la nostra poesia in giro».
Si affida molto ai social network per portare in giro la sua poesia?
«Certamente sono un mezzo fondamentale per farsi conoscere. Ho aperto il blog nel 2005 e mi sono immediatamente reso conto della potenza che aveva. È un modo per scavallare i media tradizionali, l'unico mezzo che abbiamo tutti a disposizione per arrivare alle persone».
La sua cifra stilistica è fortemente ironica: è una cosa che viene naturale o la comicità si può studiare?
«Io credo davvero che l'ironia e il senso dell'umorismo siano una cosa naturale, che non si può imparare più di tanto. O ce l'hai o non ce l'hai, e la riprova di questo è che chi non ha senso dell'umorismo generalmente non sa nemmeno di non averlo. Certo, si possono studiare le tecniche della comicità – anche se io non l'ho mai fatto – ma non si diventa comici, così come non si diventa poeti».
Da cosa trae ispirazione per quello che scrive?
«Dalla gente, da quello che ascolto. Dalle canzoni, dai fumetti, dai film: dall'arte degli altri. E poi, naturalmente, anche dalla mia esperienza: nelle mie poesie parlo molto di quello che mi succede, del mio quotidiano».
Le sue letture in pubblico hanno grande successo: si sente più affine allo scrittore tradizionale o al musicista, abituato ai live?
«Sicuramente a un musicista, tanto è vero che la maggior parte delle date del mio tour si svolgono in posti in cui normalmente si suona. Lo vedo anche dal rapporto con il pubblico: spesso la gente mi chiede di leggere alcuni miei pezzi, un po' come se fossero una hit di un cantante».
Come è stato dedicarsi a un romanzo, “D'amore si muore ma io no”, dopo tanta poesia?
«All'inizio è stato traumatico. Non avevo la preparazione psicofisica necessaria, mi sono sentito come un centometrista a cui all'improvviso viene chiesto di correre la maratona. Infatti è stata una scrittura faticosa e molto lenta, ho impiegato tre anni a finirlo. Anche perché non ce l'avevo nel cassetto, mi è stato chiesto di farlo. Man mano che andavo avanti, però, mi risultava sempre più facile e piacevole continuare, tant'è vero che mi è rimasta la voglia di ricominciare, e presto ne scriverò un secondo, sempre per Rizzoli».
Parla d'amore spesso in maniera molto cinica: è davvero così disilluso?
«Non è che sia un disilluso; diciamo che la mia è una sorta di ricerca, perché io il mondo dell'amore e del sesso non è che l'abbia ancora capito benissimo. Probabilmente c'è un po' di tormento, dal momento che ho avuto un inizio di carriera sentimentale difficile e travagliato. È sicuramente da lì che nasce la mia ossessione per l'amore».
C'è qualche altro artista a cui si ispira, o si sente affine?
«Ho una vera passione per i cantautori italiani: Battisti, Mogol, De Gregori, De André. Appartengono a una generazione di artisti che ha dato moltissimo alla nostra musica e a tutti coloro che l'hanno ascoltata. Poi, come immagino per tutti i poeti della mia generazione, Bukowski ha sicuramente un ruolo fondamentale nella mia formazione. Non posso non citare Schulz e i Peanuts, che rileggo in continuazione e che sono per me una continua fonte d'ispirazione. E poi c'è Jacques Prévert, che è probabilmente uno dei poeti che preferisco».
È stato a Torino durante il suo ultimo tour?
«Sì, all'Hiroshima Mon Amour, un posto a cui sono molto affezionato e in cui è stato un onore esibirmi. Quello era un palco che non avrei mai pensato di poter calcare».
Se dovesse dedicare una poesia a Torino, di cosa parlerebbe?
«Ho dedicato sicuramente diverse poesie alla mia città. Erano generalmente poesie d'amore, anche se miste a qualche critica. Di sicuro me ne viene in mente una, in cui spiegavo quanto Torino possa essere una città formativa: è un posto duro, difficile, ma che ti tempra, perché se riesci qui allora sei facilitato nella tua strada nel resto del mondo».
di Valentina Dirindin