I Ministri conquistano l'Italia
Esordisce al terzo posto il nuovo album della giovane band milanese de I Ministri. In occasione del loro concerto all'Hiroshima (il 20 e il 21 novembre, la data è stata raddoppiata perché la prima è andata sold out nel giro di pochi giorni), ci siamo fatti raccontare il loro ultimo lavoro
Non so se a voi sia mai successo, ma quando capita è di certo una storia da raccontare. Un giorno entri in un megastore di libri e cd, di quelli che ci sono nei centri commerciali e lì, sul “Wall of Fame” che mette in classifica i prodotti più venduti della settimana in Italia, ci trovi il cd di uno dei tuoi gruppi indipendenti italiani preferiti. Terzo in classifica. Urca – ho pensato - i Ministri ce l'hanno fatta, sono diventati grandi. E l'ho pensato con un pochino di orgoglio, l'orgoglio di chi li ha seguiti da quando erano piccoli così, di chi se li è un po' cresciuti, di chi li ha fatti ascoltare agli amici, di chi non ha mancato neanche concerto, in tutti questi anni. Se lo sono meritato, i Ministri, questo successo. Hanno lavorato sodo, hanno fatto tanta strada, si sono coccolati il loro pubblico durante e dopo i live, rimanendo sempre ore a chiacchierare e ad autografare manifesti e cd. E ora sono lì, al debutto del loro quinto album, Cultura Generale, a festeggiare un gradino sotto David Gilmour e Lana Del Ray. Chapeau, ragazzi. Non è facile far esordire un gruppo italiano così in alto. Soprattutto, non è facile avere un pubblico così mainstream quando si fa una musica così profondamente rock, con sonorità a volte prestate dal metal, con suoni così sporchi e duri. Ma i Ministri, evidentemente, hanno la carica giusta per diventare il nuovo riferimento indie della musica italiana, gli eredi di un gruppo storico e pazzesco come gli Afterhours.
Il quinto album: è tempo di bilanci...
«Wow. Diciamo che i bilanci sarebbe meglio farli a fine tour, giusto per non tirarsi addosso cassandrate. Che possiamo dire? Siamo vivi, dopo dieci anni di professione reale (il primo album è uscito a novembre 2006), siamo una rock band italiana (e purtroppo non ce ne sono tante), e ora...siamo pronti a rifare tutti i nostri dischi come Patti Smith»!
A chi dedicate questo successo?
«A tutti quelli che ci dicevano che non saremmo andati da nessuna parte. Ricordiamo ancora un concerto del 2004 in cui litigammo con l'organizzatore perché ci trovammo trattati come gli ultimi degli ultimi. Almeno in parte, lo dedichiamo a lui. E poi a tutte le persone che abbiamo convinto (per la maggior parte sul campo, suonando dal vivo), a quelle che ci hanno dato e ci danno stima, perché quelle sono il nostro terreno sotto i piedi».
Cosa c'è di nuovo in questo disco? Ce lo volete raccontare?
«Di nuovo c'è che abbiamo affrontato tutto in modo antidiluviano. Abbiamo preso in mano i nostri dischi rock preferiti degli ultimi anni, leggendo i nomi che comparivano dopo la scritta “produced by”. Poi ci siamo messi al pc e abbiamo mandato mail a manetta: il risultato è stato trovarci a lavorare a Berlino, negli studi di Funkhaus (la storica sede della radio di Stato della Germania Est, ndr) fianco a fianco con Gordon Raphael, curatore fra gli altri di album come Is This It e Room On Fire degli Strokes».
Come è stato?
«Pazzesco. Intanto, abbiamo evitato su sua indicazione tutte le tecnologie degli ultimi vent'anni, che sono per lo più correttive. Oggi la musica funziona così: si fa tutto con strumentazioni che sono le stesse dagli anni Sessanta, e poi si corregge con cose degli anni Duemila.
È come una modella con due rotolini in più, che poi viene photoshoppata, ma magari con quei rotolini stava pure meglio. Ecco, questa è la musica oggi: tolta qualche eccezione, non c'è un pezzo che passa in radio che abbia sotto una batteria vera, è tutto fatto al digitale. Raphael invece non lavora in post-produzione, e questo ha richiesto una fatica e una preparazione molto maggiori, che però sono quelle che rendevano grandi i dischi di una volta».
E il risultato qual è stato?
«Innanzitutto è stato un lavoro senza ansie, perché Raphael ci ha costretto a fare dei veri esami di autocoscienza su una serie di decisioni. Insomma, una seduta di psicanalisi. Alla fine è venuto fuori un disco di cui è naturale parlare, che è naturale suonare, senza alcun tipo di ansia perché è veramente parte di noi: ci siamo noi dentro».
E lavorare a Berlino? Siete anche voi parte di quella generazione che vuole scappare dall'Italia?
«Be', un po' sì, ma come si fa a non amare Berlino? C'è una qualità della vita enorme, ed è molto a misura d'uomo. Paradossalmente, è una città più povera di Milano: girano molti meno soldi; ma lì ti senti riconosciuto, sei il protagonista, senti davvero di essere al centro di qualcosa. E questo non perché ti venga dato dal nulla: anzi, vieni responsabilizzato, mentre qui in Italia continuerai a essere sempre soltanto un ragazzo, anche a trent'anni suonati, a meno che tu non abbia un marsupio al collo e un biberon in mano. Ecco, in Italia, finché non sei padre, sei sempre figlio».
Parliamo del titolo dell'album: cosa intendete per “Cultura Generale”?
«La scelta del titolo è stata proprio una domanda sull'espressione “cultura generale”, che in Italia spazia dai test universitari, al Bartezzaghi sulla settimana enigmistica, ai telequiz del sabato sera. Chi delimita il campo della cultura generale? Anche musicalmente questo spazio va molto di moda, ma chi pensa ad aggiornarlo, ad attualizzarlo? A volte ci sembra di vivere l'epoca dei nostri genitori, che ascoltavano Hendrix e in Italia avevano Claudio Villa».
Come avete festeggiato il terzo posto in classifica?
«Come qualsiasi piccolo successo che abbiamo raggiunto in questi anni: l'euforia dura venti minuti e poi si passa ad altro. Dobbiamo essere sinceri però, abbiamo lavorato davvero tanto e se non avessimo ottenuto questo risultato un po' ci saremmo rimasti male. Per noi è un enorme gratificazione, anche se dal punto di vista economico non è che cambi molto: negli anni Ottanta ti ci compravi una casa con i dischi, oggi ci compri una bottiglia in più a cena. Dall'altra parte, se pensi alle persone che comprano i dischi, con tutte le alternative gratuite che ci sono, viene normale pensare che sono loro ad essere arrivati terzi, non noi».
Cosa ascoltano i Ministri nel panorama italiano? C'è qualcuno con cui vi piacerebbe lavorare?
«Per questo tour abbiamo chiamato a supporto giovani band che stimiamo: EDDA (edda.net), Officina della camomilla (www.officinadellacamomilla.com), Management del Dolore Post Operatorio, il Pan del diavolo, gli Anthony Laszlo. Questi ultimi, nostri compagni di scuderia torinesi, in particolare ci piacciono moltissimo, anche come persone, a Torino abbiamo fatto serata insieme e ci siamo divertiti tantissimo».
A proposito di Torino, che ne pensate della nostra città?
«Per carità, a Torino non potremmo mai viverci, saremmo morti da qualche parte dopo pochi giorni. A parte gli scherzi, a Torino ci lega un grande amore, e in questa città ci facciamo sempre delle gran serate. È un po' la Berlino italiana, no? Ci sentiamo benvoluti qui, abbiamo un sacco di amici e di colleghi che ci fanno sentire a casa. Ci piacerebbe anche passarci un periodo della nostra vita, ma probabilmente i nostri fegati non reggerebbero».
E dal punto di vista dello stile, le vostre giacche militari rimangono sempre, vero?
«Sì, rimangono sempre, perché risolvono un sacco di problemi di coordinamento nel vestirsi del tipo: “Ehi, tu come ti vesti stasera?”. A parte gli scherzi, è una cosa nata quasi per gioco, perché avevamo trovato queste giacche in un mercatino di Amsterdam e una sera abbiamo deciso di mettercele per suonare. Non solo quel concerto è andato da Dio, ma abbiamo immediatamente notato un'attenzione più forte, molto amplificata. Non l'abbiamo certo inventata noi questa cosa, è vecchia come il rock, ma è super efficace, ti rende subito riconoscibile. Certo, il prezzo da pagare è che non sempre riusciamo a lavarle in tempo, o che dobbiamo indossarle anche quando ci sono cinquanta gradi e muoriamo di caldo».
di Valentina Dirindin