Paolo Cognetti: Le Otto Montagne diventerà un film

Le Otto Montagne, il bellissimo romanzo Premio Strega 2017 dello scrittore milanese Paolo Cognetti, diventerà presto un film. Una bella notizia per l'editoria tutta, per la cultura, per il cinema e, in ultimo, anche per noi Torinesi, che nel libro di Paolo Cognetti troviamo un po' di noi e della nostra città.

Lo avevamo intervistato, Paolo Cognetti, poco prima che ricevesse il premio più ambito della letteratura italiana. Ve la riproponiamo qui di seguito.

«Mio padre aveva il suo modo di andare in montagna. Poco incline alla meditazione, tutto caparbietà e spavalderia». Inizia così il nuovo romanzo di Paolo Cognetti, “Le otto montagne”, appena uscito per Einaudi. Inizia così, e ci sembra che ci sia dentro già tutta la potenza emotiva che uno scrittore come lui sa esprimere. Una potenza fatta di momenti di solitudine, di conflitti, di formazione e di legami familiari: gli stessi elementi contenuti nel suo libro di maggior successo, quel “romanzo di racconti” che è “Sofia si veste sempre di nero”, meritatissimo finalista al Premio Strega 2013.

In quest'ultimo lavoro, che più d'un critico già definisce “un classico”, si insinua un altro elemento caro a Paolo Cognetti, così come era già stato per “Il ragazzo selvatico”: la montagna. Non solo nel titolo del romanzo, non solo come sfondo dell'amicizia tra Bruno e Pietro, i protagonisti del libro.

La montagna è una componente essenziale della storia, è lei il vero cuore che permette l'instaurarsi di relazioni, il deus ex machina che decide l'andamento delle vite dei protagonisti. Paolo Cognetti prende la sua grande passione, il luogo dove ha scelto di vivere per buona parte dell'anno, il panorama che lo rappresenta così intimamente e lo trasforma nel vero protagonista di un grande romanzo.

Probabilmente per questo “Le otto montagne” è una storia magnetica, forte, profonda. Una storia che parte come un successo annunciato: tradotta in trenta Paesi ancor prima di essere pubblicata in Italia, è indubbiamente uno dei fiori all'occhiello della casa editrice torinese per questa stagione. 

Che libro è “Le otto montagne”? 
«È la storia di una lunga amicizia tra due uomini: Pietro, ragazzino di città, che è un po' il mio alter ego, conosce Bruno, ragazzino di montagna figlio di una famiglia di allevatori. Due vite molto diverse che si incrociano e proseguono insieme per molti anni.» 

Come è nata questa storia?
«È frutto di ricordi di infanzia: sono uno di quei ragazzi per cui la montagna è stata una forma di educazione dalla città. Sono nato e cresciuto a Milano, ma mio padre ci teneva a portarmi appena possibile in montagna per imparare cose nuove, che in città non è possibile vedere. So di non essere l'unico, anzi, mi sembra che sia una sorta di tradizione per molte famiglie del Nord Italia; un'abitudine di cui parla perfino Natalia Ginzburg in Lessico Familiare.» 

Sembra che ci sia una forte componente autobiografica...
«Sì, anche se non saprei se è poi tanto importante specificarlo. È una cosa che c'è in tanti romanzi: ci sono cose che succedono nella vita su cui, per un processo che non so bene spiegare, si innestano degli elementi narrativi.» 

Quando uno scrittore mette in un romanzo la propria vita, non c'è un po' il rischio che le cose da raccontare si esauriscano in fretta? 
«Sicuramente. Per questo io inseguo prima la vita che la scrittura, facendo in modo che il mio pozzo non si prosciughi. Questo romanzo viene anche dal fatto che da circa otto anni passo gran parte del tempo, diciamo dalla primavera all'autunno, in una baita in Valle d'Aosta. Quella che ho scritto è una storia che non esisterebbe se io non avessi fatto questa scelta di vita, che mi ha permesso di conoscere luoghi, persone, storie che mi hanno ispirato per il romanzo. Ecco, se uno va avanti a vivere e non si chiude solo a scrivere fra quattro mura, allora è la vita che continua a nutrire la scrittura.»

“Le otto montagne” è una storia di amicizia, ma anche di un rapporto genitoriale: quale di questi aspetti è stato più naturale raccontare? 
«Credo che uno sia un po' la conseguenza dell'altro, nella mia storia e nella mia testa. Il rapporto che si stabilisce tra questi due amici, fatto di pochissime parole, di molti gesti compiuti assieme e di un silenzio condiviso viene indubbiamente da un determinato tipo di rapporto padre-figlio, quindi c'è un'assoluta continuità tra le due relazioni.» 

Cosa rappresenta oggi per lei la montagna? 
«È un grandissimo rifugio, per me. Pur essendo cittadino di nascita, mi trovo sempre un po' a disagio nelle metropoli, dove trovo difficili le relazioni sia con gli altri che con gli spazi. Mi sento un po' soffocato e riesco a instaurare solo rapporti che se non sono superficiali sono aggressivi. In montagna curo invece alcuni aspetti della mia vita, quelli che riguardano la parte più intima e più profonda.» 

Parliamo della questione che inevitabilmente divide ogni coppia: se dovesse convincere qualcuno che ama il mare a scegliere la montagna, che argomenti userebbe? 
«Se ti piace il mare quando c'è tanta gente, in pieno agosto, allora potrebbe piacerti anche la montagna, ad esempio in un fine settimana del periodo natalizio, quando ci sono folle di sciatori e gli alberghi sono pieni. Che, tra l'altro, è un po' il momento in cui la detesto. Se invece ti piace il mare fuori stagione, quando puoi camminare da solo sulla spiaggia, sono sicurissimo che ti piacerà anche la montagna. Quindi dalle una possibilità, perché è un posto adatto a te.»

Questo nuovo romanzo è stato tradotto in trenta diversi Paesi prima ancora della sua uscita in Italia: è più grande la soddisfazione o l'ansia da prestazione? 
«L'Italia ce l'ho intorno, e forse questo genera un po' d'ansia. Essere molto in giro per presentare il libro e incontrare i lettori che si aspettano qualcosa da te non è mai facile, mette sempre una certa pressione. Il fatto che invece venga tradotto all'estero mi riempie di gioia, è come se il mio romanzo se ne andasse in giro da solo per il mondo, parlando lingue che non conosco e arrivando a lettori con cui non riuscirei nemmeno a comunicare.»

Lei incarna perfettamente l'idea dello scrittore schivo e riservato. Che rapporto (personale o virtuale) ha con i suoi lettori?
«Di persona semplicemente decido che ci sono periodi della mia vita in cui mi metto a disposizione, a cui poi corrispondono altrettanti periodi di chiusura. In generale, amo molto coltivare i rapporti epistolari, quando dall'altra parte c'è un'altra persona che ama scrivere. Non sono sui social network, ma ho un profilo Facebook che non gestisco io in cui, a chi mi vuole contattare per dirmi qualcosa, viene detto in maniera standard di scrivermi al mio indirizzo. La cosa buffa è che una piccolissima percentuale, poi, in effetti, mi scrive. Se non riesci neanche a superare lo scoglio di scrivere una mail, forse quella conversazione e quel rapporto non è proprio fatto per me.» 

Collabora con chi traduce i suoi libri? 
«È capitato. Anni fa una ragazza francese ha letto un mio libro, "Il ragazzo selvatico", che per tanti versi è forse il mio libro più simile a quest'ultimo. È poi riuscita a convincere un piccolo editore di Ginevra a pubblicarlo, è venuta a stare un po' con me in montagna e abbiamo lavorato insieme alla traduzione. Sono molto contento del fatto che sia lei a tradurre anche questo mio romanzo.» 

Il suo più grande successo fino a ora è una raccolta di racconti. Quale misura sente più sua, quella del racconto o quella del romanzo lungo? 
«Di sicuro quella del racconto, non tanto per l'idea di brevità quanto per le caratteristiche di quel tipo di scrittura, che funziona per sottrazioni e lavora molto su quello che non dice. In fondo, penso di aver scritto così anche questo romanzo, al punto che credo che questo sia a tutti gli effetti il romanzo di uno scrittore di racconti.» 

Cosa significa per un giovane scrittore pubblicare con Einaudi? 
«Non sono poi così giovane, né anagraficamente né come scrittore. Ho scritto e pubblicato tanto, e con molto lavoro ed estrema pazienza sono arrivato a pubblicare con Einaudi, che è certamente un punto d'arrivo.» 

L'Italia è il popolo del romanzo nel cassetto. Esiste una formula per raccontare una buona storia? 
«Non so. Io penso che se una storia non la senti davvero tua, viva, se non ti riguarda, ti angoscia, se non senti l'urgenza di scriverla per ripensare meglio alla tua vita e darle un ordine nella tua testa, forse non ha molto senso scrivere un romanzo.»

Che rapporto ha con Torino? 
«Da Milanese, c'è un legame quasi di parentela. Torino, Milano e Genova sono il famoso triangolo industriale, no? A Torino mi lega di sicuro Einaudi, in questo momento. Ma mi legano anche alcuni maestri letterari, da cui ho imparato a scrivere di montagna: Levi, Fenoglio, Pavese, Ginzburg.»

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