Tiziano Scarpa: vi racconto il mio Premio Strega

di Valentina Dirindin

Avete mai sentito parlare di “effetto Strega”? No, non ha nulla a che vedere con il mal di schiena o con i rituali magici; si tratta invece del picco di vendite che garantisce la vincita del premio letterario più popolare d'Italia. Per questo, tra tutte le onorificenze in circolazione, è di sicuro quella più ambita da tantissimi autori. A vincerlo, esattamente dieci anni fa, fu Tiziano Scarpa, con il suo “Stabat Mater” (ed. Einaudi), romanzo storico ambientato nella Venezia di Vivaldi definito dal critico letterario Giorgio Montefoschi “uno dei migliori romanzi fra quelli usciti negli ultimi anni in Italia”.

A dieci anni da quella vittoria, oggi Tiziano Scarpa continua naturalmente a scrivere romanzi (l'ultimo, “Il cipiglio del gufo”, è uscito l'anno scorso sempre per Einaudi), ma anche poesie e testi per il teatro, altra sua grande passione. Ed è proprio in occasione di una delle sue performance teatrali, quella dello spettacolo “Viaggio al termine delle note” durante il Festival dell'Espressionismo a Torino, che lo abbiamo incontrato per intervistarlo.

Come si sta, a dieci anni dal Premio Strega?
“È un premio che mi ha dato tanto: lo Strega e il Campiello sono gli unici premi che riescono a far arrivare certi libri, certi autori e autrici, nelle case dei lettori più su larga scala, anche di chi i libri normalmente non li va a cercare. È un premio strano, un riconoscimento di prestigio letterario ma anche un premio molto pop: trovo che la sua forza sia proprio il riuscire a tenere insieme le due anime della letteratura.”

È contento che un suo libro sia diventato “pop”?
“Io sono felice quando scrivo un bel libro, il resto viene da sé. In fondo, l'essere popolare è una delle anime storiche del romanzo: il romanzo nasce anche per arrivare alla gente, non è una cosa che nasce per restare fra i cosiddetti letterati. La cosa magica dei romanzi è che li possono leggere i tredicenni come i novantenni, le persone colte come quelle meno preparate. È sicuramente la sua forza, quindi non vedo nessuno snaturamento.”

Un premio così cambia la vita professionale?
“In parte sì: per qualche anno mi ha aiutato ad avere più concentrazione per scrivere i libri che ho scritto dopo, perché mi ha permesso di fermarmi per un po' e di dedicarmi solo alla scrittura. È così che ho scritto “Il brevetto del geco” e “Il cipiglio del gufo”, i miei romanzi più ambiziosi e più strutturati, forse quelli più profondi. Diciamo che per qualche tempo un premio come lo Strega ti toglie qualche ansia, sia dal punto di vista produttivo che economico.”

Non c'è invece l'ansia di non riuscire a replicare quel successo?
“No, io so benissimo che non sono uno scrittore da successi. Non ho voluto replicare in alcun modo, altrimenti avrei fatto lavori più simili a quello, e invece mi sono cimentato in cose molto diverse, perché per me ogni volta che inizio un libro è come fare un viaggio, e non può essere uguale al precedente. Io ho un'idea artistica della scrittura, faccio opere d'arte con le parole, alcune piacciono di più, altre di meno. Non voglio sembrare superbo, ma non si può pretendere che tutte le opere vadano allo stesso modo, anche perché in parte è una cosa imponderabile: spesso i risultati dei miei lavori mi hanno sorpreso.”

Ci racconta il momento della premiazione?

“Quell'anno lì fu sicuramente particolare, perché fino all'ultimo momento all'ultimo voto non si sapeva chi avrebbe vinto. Vincere un premio letterario è una cosa strana: io ho fatto anche gare di poetry slam, dove c'è una prestazione che, se fatta bene, porta a vincere la competizione. C'è l'adrenalina, la performance, il risultato. Nel caso di un premio letterario sei necessariamente più passivo, perché ti stanno premiando per una cosa che hai scritto molto tempo prima.”

È nato prima il suo amore per il teatro o quello per la letteratura?
“Direi che le due cose sono sempre andate in contemporanea: per me teatro è anche un po' una boccata d'aria, un modo per uscire dalla solitudine della scrittura. La letteratura è una cosa che porta a passare molto tempo da solo, con con la propria immaginazione e la propria fantasia. Invece vedere un testo che hai scritto impersonato da qualcuno, che lo impara a memoria, che ci mette i propri gesti, è davvero magico. È un'esperienza intensissima, come una visione che hai avuto e che improvvisamente prende forma attraverso persone in carne e ossa. È la cosa più forte di tutte.”

Chi vincerà quest'anno il Premio Strega?
“Non li ho ancora letti tutti, è impossibile fare una previsione.”

Allora, ci dica quali sono gli ultimi libri che le sono piaciuti molto...
“Le ultime lezioni” di Giovanni Montanaro (ed. Feltrinelli), un bellissimo romanzo di formazione che racconta la storia di un ragazzo che trova in un professore una figura adulta di riferimento.
“Non c'è stata nessuna battaglia” di Romolo Bugaro (ed. Marsilio), un romanzo che narra di un gruppo di amici seguiti un po' per tutta la loro vita.
E poi un libro che mi ha divertito molto, “L'idioma di Casilda Moreira” (ed. Exorma), un romanzo di Adrian Bravi, autore di origine argentina che vive da molti anni in Italia e scrive in italiano. È una storia bellissima di un giovane studioso che fa un viaggio in Sud America per scoprire una lingua in estinzione,parlata solo da due persone, un uomo e una donna, che però non vogliono parlarsi tra di loro.”

Che rapporto ha con il Salone del Libro di Torino?
“Mi piace tantissimo, soprattutto mi fa impazzire andare a scovare gli editori improbabili, piccoli, locali, molto specializzati magari in cose piccolissime. In parte sono divertenti, in parte si scoprono realtà interessanti che si presentano con cose di qualità facendo grandi sforzi. Ormai, visto che le librerie indipendenti sono sempre più rare, il Salone è una delle poche occasioni che ti permettono di fare questo tipo di scoperta. Il Salone mi piace proprio perché offre ancora la possibilità di scoprire le piccole pianticelle che formicolano ai piedi delle grandi querce.”

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